Grecia: Lettera dell’anarchico detenuto Giannis Naxakis – Sullo sciopero della fame (09/2015)
Alla conclusione del processo d'appello per la rapina della banca di Pirgetos, Giannis Naxakis è stato rilasciato dal carcere di Domokos.
Il compagno ha scontato 1/3 della sentenza iniziale ed è stato rilasciato il 16 gennaio 2017 con misure restrittive.
GIANNIS, BEN TORNATO IN STRADA!
FORZA A TUTTI GLI ANARCHICI COMBATTENTI IMPRIGIONATI
Act For Freedom Now!
Per poter iniziare a parlare dello sciopero della fame devo innanzitutto trovare i motivi che hanno dato vita ad un tale metodo come strumento di protesta/pressione, per poterlo meglio comprendere e, di conseguenza, interpretarlo nel presente. Le posizioni sullo sciopero della fame potranno essere comprese solo seguendo questo.
Tornando, quindi, indietro nel tempo, posso semplicemente immaginarmi una situazione in cui una persona (o persone) non aveva nessun’altra opzione per esprimere la propria rabbia contro la repressione subita, perché tutti gli altri mezzi erano stato esclusi in un modo o in un altro, e quindi scelse di procedere per questa via. Posso immaginare una persona che avendo esaurito tutti i mezzi attivi a sua disposizione le era ormai praticamente impossibile intraprendere un’altra via che rifiutare il cibo. Ovviamente, questa persona sarà stata in una condizione di isolamento o di restrizione, dato che non aveva semplicemente lasciato il luogo di repressione. Infatti, immagino che questa prima persona non aveva neanche la capacità di muoversi liberamente, forse perché era stata picchiata o isolata, e allora aveva escogitato questo estremo modo di reagire, un modo di autodistruzione passiva, scommettendo sul ricatto degli oppressori. Non sono in grado di valutare se questo ricatto era di natura emotiva o puramente pratica, dato che non so a quale periodo mi sto riferendo, ma sono propenso al secondo. Sono quasi certo che la prima persona che sperimentò questo sia morta. Posso solo presumere che una morte simile, ad un certo punto, non andava più bene agli oppressori, suppongo per motivi pratici (forse volevano utilizzare questa persona per lavoro/schiavitù), che corrisponderebbe alla logica di un’epoca remota.
Questa insoddisfazione dell’allora potere dominante probabilmente divenne ben nota e si diffuse come l’incidente che segnò l’inizio di riproduzione sporadica del fenomeno “sciopero della fame”. Per giunta, con la graduale democratizzazione di alcune società, una morte simile non era più conveniente, ma non per motivi pratici (per i quali avrebbero probabilmente fino ad allora già preso dei provvedimenti), bensì per ragioni umanitarie, mettendo in gioco addirittura la retorica del regime, cioè la democrazia, e quindi la posizione dei suoi funzionari.
Assieme alla democrazia prematura e i suoi “diritti”, lentamente emerse anche la questione dei diritti del nemico. Si tratta di una contraddizione logica che emerge quando un sistema di potere, e perciò di ineguaglianza, fonda la sua posizione sulle teorie di eguaglianza.
Così, arrivando ai giorni nostri, alle condizioni del territorio greco negli ultimi anni, percepisco quantomeno una degenerazione in relazione all’“estremo”, che partorì questo mezzo passivo. Naturalmente, il vero significato dell’“estremo” può variare sostanzialmente, come è normale, in un contesto di soggettività. Quindi, l’“estrema” soluzione può essere giudicata tale da persone che non stanno vivendo la stessa situazione. Ma, per poter andare avanti dobbiamo andare oltre la soggettività e identificare la condizione di cui possiamo parlare. Rimaniamo sulla condizione della detenzione, perché la condizione all’esterno consente molti altri modi di reagire, portando almeno l’ambiente anarchico a non fare questa scelta fuori dal carcere.
E’ chiaro che è aumentata la frequenza con la quale i detenuti scelgono lo sciopero della fame, soprattutto i detenuti legati all’ambiente rivoluzionario sul territorio greco, e non solo. Contemporaneamente è in crescita pure il fenomeno dello sciopero della fame simbolico, come anche il mezzo più pressante, lo sciopero della sete. Io non parlerò né dello sciopero della fame simbolico (con il giorno di conclusione predeterminato) né dell’astensione dai pasti (che non ha più nulla in comune con la sua forma iniziale, dato che già da molti anni i detenuti possono rifornirsi di cibo da altre fonti, a parte i pasti distribuiti dal carcere). Penso che il loro simbolismo degrada il reale contenuto e la vera sostanza di uno sciopero della fame, in cui la persona impegna la propria vita finché le sue richieste non vengono soddisfatte. Ma anche con i casi simbolici, come abbiamo visto, possono essere fatte delle pressioni, se questi ottengono pubblicità. Quello che però mi colpisce è la facilità con cui una tale seria decisione viene presa negli ultimi anni, e sono sicuro che è legato al fatto che, parlando di Grecia, lo sciopero della fame non ha causato neanche un morto, registrato, almeno per quanto ne sappiamo. Perciò, dall’altra parte, è facile comprendere che lo Stato sta diventando tollerante verso situazioni del genere. Certamente, la tolleranza dello Stato è legata direttamente alle dinamiche della resistenza sociale provocata dallo sciopero della fame, la quale viene presa in considerazione e politicamente “valutata” dal governo in carica. Le dinamiche della resistenza sociale dipendono da quanto “democratica”, “razionale” e “realistica” è la richiesta o le richieste poste dallo scioperante. E’ un dato di fatto che lo sviluppo di uno sciopero della fame viene influenzato dalla notorietà preesistente dello scioperante o del caso in cui è coinvolto, e da una più ampia automatizzazione sociale che si viene a creare, perlopiù incontrollabile, come abbiamo visto nel caso di Romanos. Un altro fattore condizionante sono gli interventi pubblici dei famigliari e degli avvocati (che perlopiù rivolgono suppliche al potere dominante), direi pessimo, dato che la causa dei loro interventi è puramente etica, emotiva o professionale. Quello che rende questa situazione pessima è il fatto che questi interventi possono essere evitati dall’inizio.
E adesso la mia impronta personale. Non so quanto sia chiaro il divario concettuale che mi separa dalla questione attorno lo sciopero della fame. Innanzitutto, uno sciopero della fame chiede qualcosa dal nemico; questo è un fondamento logico che io sto cercando continuamente di decostruire, vedendolo come qualcosa che rafforza il nemico, confermando e riproducendone il potere. Inoltre, circa le richieste per le quali questo mezzo è stato usato, casi a cui finora ho assistito in persona dentro il carcere, non posso dire che lo vedo come soluzione da “ultima spiaggia”, dato che ci sono molte altre azioni che possono essere intraprese qui dentro. Naturalmente, quelle a cui penso io sono accompagnate da probabili conseguenze legali e disciplinari, qualcosa che però ignori quando hai – in teoria – raggiunto i propri limiti. Tuttavia, dato che siamo dei meccanismi complessi e dato che la soggettività ritiene un posto speciale nelle nostre vite – soprattutto quando ci troviamo in situazioni difficili – non so come reagirei se raggiungessi un vero punto estremo secondo la mia soggettività personale. A parte tutto, il ricatto politico in generale, e particolarmente attraverso uno sciopero della fame, pesa molto sulla mia coscienza, perché è mediato dagli istinti umanitari della società, inclusi nell’odioso, secondo me, contesto della democrazia. La società (come struttura) e la democrazia derivano dal crimine permanente contro gli animali e la natura chiamati civiltà.
Ma, se noi siamo qualcosa, allora siamo qualcosa al disopra delle nostre contraddizioni. A qualcuno può sembrare non-strategico parlare dello sciopero della fame, ma c’è qualcosa di liberatorio in una mossa simile. Non esito a dire che il sentiero di negazione si è rilevato ad essere molto più solitario di quello che mi aspettavo. Non ci sono compagni di viaggio, e non ho neppure trovato individui che condividono le stesse intenzioni aggressive contro le situazioni che ci soffocano. Però, le “parole comuni” di sicuro rimangono una sfida costante. Qui dentro, nel mondo dei più evidenti concetti invertiti, di tanto in tanto avviene una piccola o più grossa mobilitazione che, come una regola carceraria, deve sempre contenere degli atti simbolici, come quelli descritti sopra; in alcuni di questi ho addirittura partecipato, anche se non mi si “addice”. Ho condotto lo sciopero della fame una volta (l’estate dei “14 contro le carceri tipo C”), per otto giorni durante lo sciopero della fame di massa dei detenuti, e l’impressione su tutto questo è stata cattiva, perché sentivo che non stavo affatto combattendo. Certamente, un tale atto non ha le mie simpatie, ed è ovvio che preferisco altri mezzi, più dinamici. Da allora in poi, chiunque dica che non ha perso neanche un minimo della propria dignità dentro il carcere è semplicemente un bugiardo. Quello che conta alla fine è che questa perdita di dignità non diventi contraria all’atteggiamento conflittuale verso il potere carcerario o verso le logiche autoritarie e attitudini di numerosi gruppi dei detenuti che sopprimono l’atteggiamento antiautoritario e combattivo, non-mediato e spontaneo, degli altri.
Alla fine vorrei dire che lo sciopero della fame per me detiene una posizione in questo mondo, la posizione di necessità in cui esso è nato.
Libertà per tutti noi
Settembre 2015
(tratto da Tear Down The Bastille – Voices from Inside The Walls, Greece, #6, April 2016 )