[Francia] Contro la prigione, dall’esterno
Alcuni spunti per allargare i nostri campi d’azione
Una semplice constatazione
Finché esisterà la detenzione, le persone detenute si ribelleranno. Le ribellioni all’interno di differenti tipi di carcere (prigioni, centri di detenzione, carceri minorili, manicomi) hanno avuto e hanno forme diverse: tentativi d’evasione, rivolte (a volte con distruzione della struttura), violenza contro i secondini... Queste ribellioni, anche se lasciano sempre intravedere come causa il desiderio di libertà, sono spesso accompagnate da richieste riguardanti un miglioramento delle condizioni detentive, e non la pura e semplice fine del carcere. La condizione detentiva in cui queste forme di ribellione si manifestano è già di per sé estremamente difficile, e nella maggior parte dei casi la stessa ostacola la speranza di raggiungere la libertà. Questo può in alcuni casi spiegare il “realismo” riformista della maggior parte di rivendicazioni provenienti dall’interno delle carceri.
Ma la questione che vorremmo qui affrontare è quella sulla lotta contro le prigioni dall’esterno. In effetti, non c’è alcun bisogno di aspettare una rivolta nel carcere o in un altro luogo di privazione della libertà o di detenzione per lottare contro l’imprigionamento. Il carcere rimane una minaccia sempre presente come uno spauracchio, una spada di Damocle sopra le nostre teste.
Allargare la prospettiva
La prigione non è solo una struttura iper-sorvegliata e quasi inattaccabile che conosciamo. Le persone detenute possono colpire, malgrado le difficoltà, la parte visibile dell’iceberg della detenzione: il sistema giudiziario, il carcere e i dipendenti. I sovversivi all’esterno hanno la possibilità di attaccare, in aggiunta, anche altri ingranaggi, meno visibili a prima vista, ma non meno indispensabili per il funzionamento del carcere. Pensiamo solo alle imprese che garantiscono la gestione quotidiana: generi alimentari, manutenzione dei locali, bucato... Ci sono anche le strutture fisiche che assicurano il rifornimento di energia elettrica, acqua, gas ecc., e le comunicazioni con l’esterno (telefono, internet...). A tutto questo vanno ad aggiungersi le aziende che traggono profitto dallo sfruttamento dei detenuti, e persino le associazioni per il reinserimento che utilizzano la formazione professionale come una scappatoia.
All’esterno le nostre possibilità di agire e di attaccare sono molteplici, a differenza delle persone all’interno. Possediamo un campo d’azione più esteso, la possibilità di analizzare, di costruire delle dinamiche d’attacco senza subire direttamente la detenzione. La possibilità di decifrare il funzionamento del sistema carcerario e quali sono i suoi ingranaggi.
Lottare contro i differenti ingranaggi del sistema-carcere rappresenta una necessità sempre presente. Il fatto di prendere l’iniziativa concede il vantaggio della sorpresa, il tempo necessario per prepararsi e la scelta del momento d’attacco. Questo presenta innegabili vantaggi in confronto alla semplice reazione dinnanzi una situazione esplosiva che non avevamo previsto, come una rivolta interna che scoppia e si svolge così in fretta che noi all’esterno veniamo colti di sorpresa. E quando questa dura un po’ di più, le consuetudini prendono il sopravvento: ci sono i sempiterni, rumorosi ma innocui, presidi davanti a queste fortezze, mentre esistono diverse altre possibilità.
Per una lotta continua e intensa
Si ha l’impressione che la maggior parte dei rivoluzionari mostra interesse per il mondo carcerario solamente quando ci sono delle esplosioni di rabbia all’interno o quando la repressione colpisce i compagni. Invece, il carcere funziona a pieno regime ogni giorno: esso inghiotte continuamente le vite di decine di migliaia di persone e minaccia quelle di tanti altri. Il conflitto contro di esso dovrebbe quindi essere parimenti continuo.
Una lotta contro il carcere non dovrebbe nemmeno limitarsi a contrastare la costruzione di una o più nuove prigioni (come nel caso della prossima serie di penitenziari, che il governo vorrebbe vedere sorgere quanto prima), come un appuntamento prevedibile. Questa lotta dovrebbe essere considerata come una pratica permanente dei sovversivi. Non ci vogliamo limitare a combattere un cantiere, per poi levare le tende, delusi, quando la nuova prigione inizierà ad inghiottire il mondo, e attendere che queste persone si ribellino da sole.
E’ necessario non solo attaccare le imprese che stanno costruendo questa nuova prigione, ma farla pagare anche a coloro che hanno costruito le già esistenti, sovraffollate, a coloro che si riempono le tasche con queste. Se non vogliamo giocare a fare i populisti a fianco dei vicini o di quelli che si oppongono alla costruzione di una prigione perché distrugge lo spazio verde (!), ma bensì cercare una pratica d’attacco anti-carceraria come pratica costante, allora la scelta è ampia: le carceri sono già là, i loro collaboratori anche, ad ogni angolo della strada.
L’obiettivo dovrebbe quindi essere la lotta contro il carcere in sé, contro tutti i suoi soggetti che lo rendono possibile. Non solo contro i muri e l’amministrazione penitenziaria (cosa difficile peraltro – ma non impossibile), ma anche attaccando gli anelli deboli: le imprese che permettono al sistema carcerario di esistere. Le imprese che forniscono i viveri, servizi di lavanderia e altri, quelle che fanno lavorare i detenuti, le associazioni per il reinserimento ecc.
Attaccando all’improvviso, in continuazione, prendendo l’iniziativa ed agendo sulla diffusione di un dissenso al mondo carcerario. Senza dimenticare che i luoghi di detenzione sono una versione in miniatura, portata all’estremo, di questa società che assomiglia sempre di più ad una grande prigione a cielo aperto.
(tratto da Kairos n°3, 03/2018)