Di quale insurrezione parliamo?
Il 4 novembre 2018, in Nuova Caledonia, quelle e quelli che credono alle gioie della democrazia sono andati a deporre i loro bollettini di voto per decidere dell’indipendenza. Risultato scontato, non abbiamo assistito alla nascita di un nuovo Stato e l’isola resta sotto la protezione coloniale francese. La sera, delle grosse sommosse hanno scosso le zone a maggioranza canaca. Queste spinte nazionaliste hanno attirato l’attenzione dei media e di una parte della sinistra radicale, sempre pronta a correre dietro agli sfortunati, soprattutto quando sono così lontani, chiudendo gli occhi su quello che significa l’indipendenza di ogni pezzo di terra: un nuovo Stato, ma canaco, con un potere canaco, una polizia canaca, dei tribunali canachi, delle prigion canache, forse un’esercito canaco… che felicità!
Secondo me, invece, quello che merita più attenzione, in questa parte del Pacifico, sono i sabotaggi ricorrenti, da diversi mesi in qua, di un’installazione mineraria che estrae (dovrebbe estrarre) del nichel. Le fotografie di questa miniera mostrano delle vaste distese di terra senza un filo d’erba, tagliate in due dalla “serpentina”, il meccanismo di trasporto del minerale verso il porto. Questa serpentina è stata incendiata una decina di volte nel 2018, la stessa sorte è toccata a dei camion e ad altre strutture. I danni sono talmente importanti che la società di estrazione mineraria (SLN) ha deciso di sospendere (almeno per il momento) lo sfruttamento del sito. I giornali ci informano che quelli che si oppongono alla devastazione dell’isola sarebbero dei “giovani”, mentre i “capi consuetudinari” sono, dal canto loro, sempre pronti a negoziare con SLN per il proseguimento dell’estrazione (business is business). Potrebbe sorgere una domanda. Questi “capi consuetudinari” non sarebbero forse fra quelli che hanno molto da guadagnare da una Canachia indipendente? Quindi, oggi difendono gli interessi dell’impresa che devasta l’isola (interessi che immaginiamo facilmente essere anche, in parte, i loro). E domani, dopo l’indipendenza? Faranno probabilmente parte della casta dirigente di una nazione indipendente. Continueranno quindi a difendere gli interessi dell’impresa straniera che devasta la loro isola, interessi che saranno anche, in parte, i loro – e pure con delle percentuali un po’ più alte di oggi!
Qualche giorno dopo le celebrazioni dell’11 novembre, con il corteo dei Capi di Stato venuti a Parigi per l’occasione, i giornali hanno riportato la notizia dell’incendio di una macchina davanti all’ambasciata del Congo a Parigi, in rue Paul Valéry. Sul muro, una scritta ostile all’attuale presidente, il generale Sassou, e in favore del suo principale avversario, il generale Mokoko.
Su alcuni blog anarchici, leggiamo che la notte precedente una macchina appartenente ad un corpo diplomatico non specificato è finita pure lei in fiamme, a qualche centinaia di metri appena da lì, all’angolo fra la rue Spontini e l’avenue Foch. La rivendicazione di questo attacco cita il vecchio slogan anarchico “contro la loro guerra, contro la loro pace, per la rivoluzione sociale”, talmente dimenticato in questi tempi di celebrazione della pace del Capitale che ha seguito il primo macello mondiale.
Il 19 novembre, dopo i primi presidi dei Gilets jaunes, un casello autostradale viene distrutto, a Virsac, nel dipartimento della Gironda. Molti altri hanno fatto la stessa fine, nei due mesi passati. Ce ne possiamo rallegrare, perché ogni struttura del Capitale merita di finire in fumo. Potremmo esultare anche a causa del fatto che la maggior parte delle autostrade in questione (e quindi i relativi caselli di pedaggio) appartengono all’impresa Vinci, quel gigante del cemento che molti sovversivi conoscono e combattono perché costruisce prigioni e CIE. Potremmo anche pensare a quell’autunno 2013, quando la resistenza allo sgombero della ZAD di Notre-Dame-des-Landes ha motivato molti insonni a prendersela con questa ditta, oppure ai veicoli di Vinci che bruciano, di tanto in tanto, un po’ dovunque in Francia e al di là, in special modo per odio di ogni prigione. Ma… Ma… tutto è così bello, in questo migliore dei mondi dell’insurrezione?
Siamo contro questa società, le sue nocività ed ogni forma di sfruttamento, oppure vogliamo delle autostrade gratuite, senza autovelox e con del carburante poco caro? Desideriamo la distruzione di ogni prigione, la fine di ogni autorità, oppure vogliamo cambiare la bandiera che sventola al di sopra delle mura? Per un mondo vivibile o per l’indipendenza in un ambiente devastato dall’economia e della tecnologia? Contro ogni Stato o contro un certo Stato, un certo presidente? Contro il capitalismo o contro la finanza “straniera”? Contro quella schiavitù che è il lavoro o per un aumento del potere d’acquisto? Cacciamo un re, ma lasciamo il trono disponibile per chi sarà il più rapido o il più furbo? Per la rivoluzione o per il Referendum d’iniziativa cittadina? Siamo pronti ad accettare ogni alleato, a cogliere qualunque occasione in nome dell’efficacia, come dei volgari equilibristi della politica, oppure cerchiamo delle complicità profonde e fondate sulla condivisione di idee e valori, in una lotta che è quella di una vita, che non è cominciata ieri e che non finirà domani?
Di quale insurrezione parliamo? Si tratterebbe di un fine in sé? Oppure essa non è che un mezzo per raggiungere la libertà e allora deve essere in coerenza con le nostre idee e principi?
Gli anarchici mancano a tal punto di progettualità proprie da doversi per forza allineare all’attualità, anche se (e ancora!) in maniera “critica”? Anche se soltanto per approfittarne per... cosa, precisamente, a parte i voli lirici e l’immaginazione?
Quali sono le ragioni di questa mancanza di fiducia in noi, nelle nostre idee, nelle nostre capacità? La critica necessaria del marxismo non è bastata per cancellare la necessità di un qualche soggetto storico collettivo che servirebbe a legittimare la mia rivolta individuale? Perché? In nome dell’efficacia, ancora una volta?
Non si tratta di negare il fatto che delle spinte emancipatrici spontanee hanno sempre scosso il dominio, né che la libertà potrebbe apparire precisamente nei momenti che infiammano questo mondo. Ciononostante, un determinismo che consideri ogni situazione di caos come potenzialmente rivoluzionaria (la rivoluzione sarebbe quindi quasi una necessità della storia), è secondo me abbastanza ingenuo. Non ogni rivolta contro il potere in carica è per forza emancipatrice: essa può anche andare verso un’altra forma di potere, oppure rafforzare, aiutandolo a riformarsi, quello che esiste. Bisogna quindi evitare di riappropriarselo ignorando le motivazioni che lo hanno reso possibile, ignorando allo stesso tempo le nostre motivazioni.
È meglio, secondo me, avere ben chiari in mente dei principi di libertà totale per ciascuno e ciascuna e agire a partire da lì, certo anche, in certi casi, assieme ad altri rivoltosi. È meglio continuare a riflettere al momento, al luogo e al modo di colpire nella maniera più incisiva e in modo da portare la maggior libertà possibile nei nostri atti. Senza dubbio un cammino arduo e abbastanza solitario, in special modo di questi tempi, ma indispensabile.
Difficilmente qualche manciata di anarchici/e intransigenti potranno sconfiggere da soli/e un mondo fondato tanto sulla violenza che sulla rassegnazione, tanto sulla tradizione che su sogni avvelenati di potere e ricchezza. Eppure sono le nostre idee, di quelle e quelli che non temiamo di essere una manciata contro tutto e contro tutti, che potrebbero evitare che ci perdiamo sul cammino che mira ad abbattere ogni autorità.
(tradotto da guerresociale)