Francia: Incendio di mezzi e riflessioni contro quelli che li utilizzano (14/16-05-2019)
Ricordiamo ancora sfiorare le assemblee, le strade furiose, i blocchi, le piazze occupate. Ricordiamo l’immergersi nei manifesti, volantini, giornali. Eravamo aperti nelle nostre parole e negli incontri, avidi e impazienti di combattere questo mondo in cui siamo nati e che ci fa ogni giorno morire un po’ di più. Cresciuti nell’etica di classe, ci siamo avvicinati agli operai. Non sono loro i nostri alleati per definizione? Sognavamo Haymarket, mentre la maggior parte sognava il proprio potere d’acquisto e una buona pensione. Noi volevamo bruciarlo, loro volevano lavorare meglio. Eravamo troppo riluttanti al lavoro per non diventare disillusi dal contatto con gli sfruttati. Questo testo è un’eco distante dell’incendio notturno avvenuto il 14 e il 16 maggio 2019. Questi erano attacchi contro il lavoro, ovvio, ma anche contro quelli che contribuiscono a perpetuarlo.
Saint-Etienne, due di mattina...
Con passi silenziosi ci avviciniamo al cantiere di questi mostruosi lavori pubblici. Il cancello è aperto. Esitiamo, abbiamo paura, ma il desiderio di agire dissipa le nostre preoccupazioni. Allora entriamo, separati. Ogni partecipante all’attacco sa cosa fare. Una sottile miscela di anticipazione e improvvisazione. Ognuno prepara il veicolo, senza far distinzioni tra quelli della compagnia e privati. Qualcuno lancia il segnale. Improvvisamente, le luci soprastanti si uniscono alle fiamme. Ci riuniamo e ci affrettiamo nella notte.
Quello che abbiamo distrutto fa parte dei mezzi di produzione. L’etica di classe ci dice che la classe lavoratrice, e solo essa, può sabotare questi mezzi in una logica di rapporto di forza con la classe sfruttatrice. Con l’eccezione di qualche episodio luddista, il sabotaggio non ha mai raggiunto delle vere intenzioni o intensità distruttive. Questa stessa etica insiste anche sul fatto che la classe lavoratrice dovrebbe riappropriarsi dei mezzi di produzione. Ma non continueremo andare avanti con esempi storici, perché non ci interessa. Gli aeroporti, le carceri, le autostrade del popolo, gli odiamo in ogni caso. I mezzi di produzione che li realizzano dovrebbero essere solamente distrutti. E non vogliamo attendere che gli sfruttati raggiungano la rilevazione per armare la nostra fermezza. La lotta di classe è un inganno, dato che tutte le classi si riproducono attraverso il lavoro. Profitto e potere per alcuni, salari per altri. Insieme, un’indissolubile comunità di interessi. Gestione collettiva. E voi ci volete nel corteo di Primo maggio in mezzo a questa fetida, strisciante massa! No, noi siamo pieni di rabbia contro il lavoro, la sua nocività distrugge le nostre vite.
Una luna molto bella inizia la sua discesa sopra Saint-Julien-Molin-Molette. Oltre ai suoi dolci, questo paese del Pilat deriva la sua reputazione da un progetto di estensione della cava e dalla sua opposizione locale. Forse questo spiega la grande presenza di telecamere sul sito. Dalla valle alla vetta, la lordura fa sanguinare la montagna. Entrando sul luogo, si rabbrividisce di fronte a questa ferita aperta, verticale. Per riuscire a curare questo squarcio minerario, si arriva ad infliggere un danno massimo agli ingranaggi
E’ complicato scrivere di responsabilità, soprattutto quando è individuale. Da parte nostra, cerchiamo di navigare tre le sponde delle teorie sul libero arbitrio e quelle sul determinismo assoluto. Quelli che sfortunatamente si schiantano contro una o l’altra parte, diventano dei buoni punti di orientamento per indirizzare il nostro scafo. Riconosciamo che in misura molto variabile, gli individui sono sempre responsabili delle proprie azioni.
Al di là del ruolo che gioca nella propria classe, “la forza lavoro” conserva la propria soggettività e il proprio potere per agire in tutte le situazioni. Precisamente, là dove si trova il suo potere, si trova anche la sua responsabilità. Quelli che entrano in sintonia con queste premesse possono iniziare a spostare lo sguardo lontano dallo Stato e dal capitale per vedere le comuni innumerevoli parti responsabili. Coloro che chiudono le porte. Che perquisiscono i corpi. Che assegnano i punteggi. Che sperimentano nei laboratori. Che viaggiano attraverso il paese per vendere le bibite. Che automaticamente prescrivono medicinali, che dormono nelle loro uniformi militari, che spingono il proprio carrello di spesa, che guidano camion, che vanno a sciare, che installano le serrature digitali. Quelli che prendono la metrò, si trascinano per la strada, strisciano nell’ufficio, tornano a casa dalla fabbrica, s’imbottiscono di birre, schiavizzano le mogli, mangiano nei ristoranti, seguono le mode, consumano le informazioni, che dormono come morti. E allora, dopo aversi scollati tre caffè, ricominciano tutto da capo. Otto ore al giorno, 250 giorni all’anno, per quarant’anni di vita.
Per un salario, queste comuni parti responsabili aggravano le condizioni di ognuno attorno a loro, assassinando ciò che è bello mentre la Terra piange. Eppure, questo gregge di lavoratori non distrugge né il proprio posto di lavoro né i mezzi di produzione. Perciò, continueremo a farlo noi. Perché è necessario.
Due giorni dopo, nuovi veicoli della Vinci dormiranno sull’asfalto. In una settimana la cava rilancerà la propria macchina estrattiva. I nostri atti sono tanto inutili quanto le loro conseguenze sono effimere. E nonostante simili azioni, non ci sarà nessun caos. Noi attacchiamo solo per noi stessi, per fare e rifare un’esperienza intima del rifiuto di questo mondo. Il senso e la consistenza delle nostre vite emergono solo in questi pochi secondi.
Rapaci di Rajas