Titolo: Carcere di Rebibbia-Roma [Italia]: “Così è… se vi pare” – Scritto della compagna anarchica Anna Beniamino (01/2018)
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Riflessioni ed aggiornamenti su di un processo

Non ci sono grosse riflessioni da fare su di un episodio repressivo, in fondo si tratta del semplice e ciclico presentarsi di azione e reazione – e neppure su quanto giochi sporco la repressione – altro fatto ben noto, al limite qualche nota a margine sullo svilupparsi delle sue tecniche e strategie.

Questo cercherò di fare, a più di un anno dagli arresti, a processo iniziato, aperta una breccia nella campana di vetro censoria e scoperte le carte giudiziarie, nella complessità della loro miseria, dopo lo scarno resoconto sullo scorso numero di Croce Nera e gli ulteriori sviluppi a cavallo della chiusura delle indagini e dell’udienza preliminare.

Prima di qualsiasi valutazione però, mi preme ribadire, semplicemente, l’orgoglio nell’anarchia e negli anarchici che mi hanno permesso di nutrirmi di solidarietà fatta azione, scritti, rabbia rimbalzata oltre i cancelli e da carcere a carcere, mostrando ancora una volta quanto la tensione anarchica sia viva, attuale e capace di irridere le categorie e saltare gli steccati che la repressione vorrebbe imporre, scrollandosi di dosso la zavorra di paure e del mito del consenso.

Ho sempre pensato che l’anarchia sia una cosa seria, se praticata da donne e uomini dotati di ragione ed istinto, di qualcosa che – quando viene chiuso nelle gabbie e nelle strettoie del dominio – gli si ritorce contro e si fa forza delle debolezze che vorrebbero istillare. Siamo qui per questo, in una partita a dadi senza fine tra l’autorità e la sua negazione.

Ho sempre pensato pure che l’anarchia abbia l’indubbio privilegio di poter poggiare su di un potente retroterra filosofico, storico e culturale, commisto ad un atavico istinto alla negazione: elementi che ancor oggi si miscelano spontaneamente in efficaci ricette distruttive.

“L’anarchia, quando vuole, essa è potente”, per citare il compagno anarchico Panagiotis Argyrou in un suo comunicato solidale, di quest’estate, agli arrestati al G20 di Amburgo.

L’idea anarchica continua ad esser un problema per l’autorità rendendo palese, alle menti libere, la concretezza insita nella sua negazione.

Non voglio creare equivoci però, non esistono meri processi alle idee: quando la repressione colpisce avviene sempre in seguito a fatti, azioni ben precise che vanno ad intaccare la quiescenza sociale diffusa e l’assuefazione al controllo tipiche di questi anni.

Azione e reazione: si istituiscono processi agli anarchici per quello che gli anarchici sono, nemici dello stato.

La repressione – e la conseguente codificazione ed applicazione del codice penale – cambiano forma e si adattano a seconda delle contingenze e del grado di pericolosità dello scontro in atto: possono muoversi con ferocia vendicativa, facendo tabula rasa di tutto quanto si para loro davanti, con blando paternalismo o con tutta una serie di gradazioni intermedie. A volte sono i refrattari stessi a dare il ritmo all’azione, a volte subiscono, e reagiscono – ai contraccolpi repressivi. Spesso si lamentano di muoversi quando stretti alle corde, piuttosto che attaccare per primi. Bisogna però aver coscienza che patire i colpi, non significa esserne “vittime”.

Sarà che per troppo tempo quello di vittima della repressione è stato un vecchio ruolo, di comodo per alcuni, nel teatro della democrazia, una falsa e sgradevole etichetta che ha prodotto pietismo, non coscienza combattiva.

Su questo passaggio sta l’importanza di questi tempi: sulla nuova o rinnovata coscienza di esser parte contundente, apportatori di germi sovversivi se si vuole, non solo negli ambiti ristretti di movimento ma nel porsi, sociali od antisociali che ci si senta, quali fieri portatori di una serrata critica all’era del dominio tecnologico, del controllo e dell’omologazione globali.

Denudare il re e le sue vergogne, ieri ed oggi, è stato e continuerà ad esser oggetto della repressione, con vecchi e nuovi arnesi. Le ridicole categorie del codice penale – apologie, istigazioni, associazioni – mirano a colpire il tessuto connettivo tra parola ed azione, la solidarietà.

Non possiamo permetterci di stupirci di questo, più di un secolo fa c’erano le associazioni di malfattori, la regia autorità faceva chiudere i giornali e perseguitava i sovversivi e le loro riunioni, sorvegliava i locali malfamati in cui si riunivano. Oggi si monitorano pure web e comunicazione digitale.

Differentemente dai tempi passati però, il controllo si è fatto pervasivo grazie all’avvento dei nuovi orpelli tecnologici, a cui speso si accompagna una minor consapevolezza e fiducia nelle proprie potenzialità e possibilità di opporvisi.

Modelli e tecniche repressive vengono riproposti ed ammodernati (a volte neppure più di tanto), somministrati al bisogno: ora, tra l’altro, utilizzati per arginare, o tentare di farlo, un’innegabile effervescenza degli ambienti anarchici.

Prender atto di questo non significa né immobilizzarsi come animaletti impauriti sorpresi dai fari di un tir in corsa né gettarsi – mani e piedi legati – nelle fauci del mostro, convinti della sua ineluttabile voracità. Un cambio di prospettiva piuttosto: aspirare, ora e sempre, ad esser un boccone indigesto, senza cadere nell’equivoco di un’onniscienza ed onnipotenza del dominio, dove spesso non c’è una strategia globale ma un intreccio informe di interessi carrieristici in contrasto, direttive impartite e funzionari variamente zelanti.

Non va dimenticato il fattore umano, anche nella forma più deteriorata che può emergere da un compilatore di carte di questura, che rubando e deformando pezzi di vita nostra, ci fornisce un’ampia panoramica della miseria della sua essenza.

Iniziando dalla fine: dall’associazione all’istigazione e viceversa

Con l’avviso di chiusura indagini dell’Aprile 2017 – per gli arrestati ed indagati a piede libero del Settembre 2016 – è stato aggiunto, oltre ai reati già contestati, per 12 dei 17 imputati iniziali, il 414 c.p. (istigazione a delinquere) con finalità di terrorismo come ideatori e/o diffusori di Croce Nera, giornale e blog, facendo esplicito riferimento ad alcuni editoriali ed articoli dal n° 0 al n° 3. Segno dei tempi, per quanto riguarda il reato di istigazione è indicata pure l’aggravante per “aver commesso il fatto attraverso strumenti informatici e telematici”.

Inoltre il 2 Giugno 2017, con suggestiva tempistica rispetto all’udienza preliminare del 5 Giugno, la catena di Sant’Antonio della repressione ha tirato dentro al carrozzone di S.M. Altri 7 compagni, a piede libero per 270 bis e 414 c.p. perché redattori (e non) di Croce Nera e del blog di RadioAzione e Anarhjia, oltre ad accusare ulteriormente 2 dei 7 succitati, per 280 c.p., per il rinvenimento, durante le perquisizioni del Settembre 2016, assieme ad altro materiale pubblicato su Croce Nera, di copia della rivendicazione dell’attacco al tribunale di Civitavecchia del Gennaio 2016, a firma del Comitato pirotecnico per un anno straordinario – FAI/FRI. Nell’udienza preliminare sono stati unificati i due filoni d’indagine, rinviando tutti a giudizio, senza cambiar nulla delle varie imputazioni. In pratica, dopo un anno di ossessivo controllo censorio (attraverso blocchi e sequestri sistematici della corrispondenza degli arrestati, che è confluita direttamente nei faldoni del pm, aggiunti agli atti all’udienza preliminare) e monitoraggio della solidarietà, il pm e la questura sono riusciti a partorire un provvedimento punitivo, “in direttissima”, per alcuni di quanti hanno continuato a mantenere contatti con loro e continuato l’attività editoriale.

L’utilizzo affiancato di 270 bis e 414 c.p. diventa paradigmatico delle loro strategie, se si ragiona su quanto successo con la sentenza Shadow a Perugia e l’utilizzo che in questo processo se ne vorrebbe fare.

Senza dimenticare l’intensificarsi, in questi anni, del 414 c.p. usato anche “in purezza”, come direbbero gli enologi, senza tenerlo come sponda nelle accuse associative, per colpire qualsiasi scritto che “difenda” l’agire anarchico, malleabile coperchio con cui cercar di soffocare le fiamme di parole ed azioni solidali.

C’è da sottolineare, d’altro canto, che i mezzucci da questurino non hanno intimidito nessuno.

Carta riciclabile… La struttura dell’indagine

Sarà che gli scritti rimangono ma, con Scripta Manent, la procura e la Digos torinesi non hanno voluto buttar via proprio niente. Hanno riesumato dal cimitero degli elefanti delle archiviazioni e dei processi già fatti, rimasticandoli e risputandoli, circa 20 anni di monitoraggio e repressione:

— Processo ORAI (pm Marini, ROS, Roma) del 1995;

— Indagine sull’attentato a Palazzo Marino a Milano nel 1997 a firma Azione Rivoluzionaria Anarchica;

— Indagine su Solidarietà Internazionale (pm Dambruoso, Digos, Milano) archiviata nel 2000;

— Operazione Croce Nera (pm Plazzi, ROS, Bologna) che nel 2005 aveva portato agli arresti dell’allora redazione di Croce Nera, poi risoltasi in breve tempo, in una sentenza di non luogo a procedere;

— Indagine su plico incendiario a questore di Lecce del 2005 a firma Narodnaja Volja/FAI;

— Indagine sull’attentato alla caserma allievi C.C. Di Fossano e plichi incendiari a firma FAI/RAT del 2006 (pm Tatangelo, ROS, Torino) archiviata nel 2008;

— Indagine sui plichi incendiari ed attentato alla Crocetta a firma FAI/RAT del 2007, archiviata nel 2009 (pm Tatangelo, Digos, Torino);

— Operazione Shadow (pm Comodi, Digos, Torino) iniziata nel 2009 per 270 bis, 280 c.p.; risoltasi nel 2016 con condanne per 414 c.p. per il periodico KNO3 e 2 condanne per furto d’auto e tentato sabotaggio a linea ferroviaria;

— Operazione Ardire (pm Comodi, ROS, Perugia) iniziata nel 2010, che porta a 8 custodie cautelari nel 2012, poi confluita integralmente in Scripta Manent dopo passaggi di competenza territoriale prima a Milano, poi a Torino;

— Indagini Kontro, Replay, Sisters, Tortuga (pm Manotti, ROS, Genova) su attentati a caserme C.C. di Genova, RIS di Parma del 2005 e altri attacchi;

— Indagine Evoluzione, Evoluzione II (pm Musto, Milita, ROS, Napoli) Iniziata nel 2012 sull’attacco ad Adinolfi “evolvendosi” poi in monitoraggio su RadioAzione e RadioAzione Croazia;

— Indagine Moto (pm Franz, Piacente, ROS, Genova) che nel 2012 ha portato agli arresti di Nicola Gai e Alfredo Cospito;

— Indagine su pacco-bomba ad Equitalia (pm Cennicola, Polino, Digos, Roma) del 2011, riaperta nel 2014;

— Indagine su attentato al tribunale di Civitavecchia e molotov ai C.C. di Civitavecchia del 2016 (pm Cennicola, ROS, Roma).

Questo lungo elenco è fatto spulciando l’indice – e dimenticando sicuramente qualcosa – senza citare tutta un’altra serie di monitoraggi e informative travasate da un’inchiesta all’altra, da una questura all’altra, spesso contesi a suon di competenze territoriali attraverso le scappatoie permesse dalla formulazione del reato associativo.

La strategia sottesa a tutto questo è abbastanza evidente, la stessa mole di carte per quanto contraddittoria diventa suggestiva. Si consideri che vengono quasi interamente riversati in Scripta Manent gli atti dei procedimenti succitati, che aggiunti alle elucubrazioni del duo Sparagna/Digos torinese diventano 206 e più faldoni di atti giudiziari.

Schedatura e scrematura: centinaia di nomi e curriculum vitae, di episodi di sovversione quotidiana, schedati, sezionati e ricomposti ad hoc. Alle traiettorie esistenziali, ai frammenti di discussioni e ai giornali pubblicati si sovrappongono interpretazioni discordi a seconda dell’occhiuto controllore di turno, acrobazie attributive spazio-temporali, neo-lombrosiani studi comportamentali. Non è la prima volta che accade, così come è ben collaudato il tentativo del setaccio tra “buoni e cattivi”, l’utilizzo della stampa anarchica come “clandestina” e prodromica all’”associazione”.

Spesso capita, e son la prima a farlo, di dar dell’ironia su grossolanità ed incongruenze palesi delle carte giudiziarie, dimenticandosi però che c’è una consapevole arroganza del potere in questo.

Al di là della pescata grossa o piccola che faccia, l’apparato repressivo è ben consapevole della manovrabilità che le sue operazioni anti-terrorismo permettono. Sorvegliare e punire… monitoraggio approfondito su contatti, reazioni, tentativi di pressione sulla “tenuta” e ampiezza solidale, lunghe carcerazioni preventive.

Ritengo però miopi e sbagliate le analisi che vorrebbero vedere la repressione contro determinati settori di movimento come un laboratorio dove in vitro si sperimentano tecniche repressive che verranno poi allargate a vasti strati sociali. In questo c’è una certa paternalistica, per quanto ingenua, presunzione oltre al tentativo di cercar consenso, attraverso il cemento della repressione, nel dissenso tiepido di questi anni.

Quando invece, l’utilizzo del bastone e della carota è molto più articolato e subdolo.

Il potere non ha bisogno di testare in vitro la repressione sugli anarchici, semplicemente applica sugli anarchici un frammento della violenza dispiegata in modo molto più feroce altrove: quando lo stato non si fa problemi ad addestrare bande armate di mercenari per difendere i propri confini ed interessi, ad affogare quotidianamente migliaia di esseri umani, di utilizzare gli allontanamenti coatti dal proprio territorio ogni settimana per meri reati d’opinione (basta un semplice click sulla pagina del primo idiota, integralista religioso del 21° secolo per ritrovarsi imbarcati sul primo volo).

LA repressione somministra, per ora, punizioni ben diversificate ed è ben consapevole di dove può allargarsi in maniera indiscriminata, con la più ampia ed asservita copertura mediatica. Senza nulla togliere al fatto che anche in ambiti di movimento le pene “esemplari” non mancano.

Spesso risulta che i compagni siano più cautelati e consapevoli nell’affrontare la repressione. Non è casuale che arrivino da queste parti le attenzioni maggiori all’evoluzione delle tecniche di schedatura, controllo, monitoraggio massivo nonché a quelle di manipolazione del consenso.

Psico-antropologia da questura

In un quadro di accuse dove tutto si muove si deduzioni/illazioni a cercar di far da collante interviene in dosi massicce una sorta di studio comportamentale. La consapevolezza – ed il sottrarsi – all’occhiuto ed onnipresente controllo poliziesco diventano essi stessi suggestivi.

Esistono prassi ormai consolidate negli ambienti di movimento, anzi ormai una prassi sociale diffusa per i più disparati motivi: parlare in maniera evasiva per telefono od utilizzarlo in maniera limitata, non compulsiva come vorrebbe la guida del cittadino-consumatore perfetto; porre attenzione a pedinamenti; eliminare microspie e telecamere da casa, auto, luoghi di lavoro; porre attenzione al controllo telematico, per far qualche esempio.

Conosciamo da anni pure le opportunistiche interpretazioni sbirresche delle frequentazioni con amici e compagni e nelle iniziative di movimento: ad insindacabile giudizio del guardone di turno e/o miopia calcolata, a seconda della necessità, si è troppo o troppo poco presenti. Conosciamo pure la passione questurina per scambiare qualsiasi iniziativa, viaggio o gita fuori porta come “incontro tra sodali” (l’eccesso di zelo dei birri piemontesi è arrivato a nutriti video-reportage al mare, in Liguria sugli scogli a Ferragosto, con tanto di nuotate alla boa come “incontri riservati”).

Ora, in un perfetto incrocio tra psico-polizia e commedia all’italiana diventa suggestiva l’assenza: assenza fisica, assenza di telefonate e contatti. Questo non è ancorato, nella tesi accusatoria ad un particolare evento od azione ma vale di per sé il sottrarsi al controllo, o meglio il non essere monitorati passo a passo, e non è ben chiaro se ciò avvenga per volontà dei controllati o per incapacità manifesta dei controllori.

Troppa ironia? Forse sì, visto che la realtà è fatta di un controllo ossessivo ed inquietante che non si tira indietro di fronte a nulla: perquisizioni estemporanee travestite da controlli sul malfunzionamento dei microfoni occultati in casa, controlli e radiografie delle spedizioni postali prelevando direttamente la corrispondenza da buche delle lettere e uffici di smistamento postale: duplicati delle chiavi per entrare nei luoghi di lavoro in assenza degli indagati, telecamere nascoste in luoghi pubblici in quanto “presunti obiettivi”.

Questi sono solo alcuni esempi di un’applicazione piuttosto capillare del controllo, oltre a quelli tradizionali: telefoni intercettati per anni, microspie in casa e sul lavoro, gps in auto, telecamere sugli ingressi di casa, cantina e luoghi di lavoro, controllo incrociato di tabulati telefonici e positioning dei cellulari, pedinamenti con foto e videoriprese, intercettazione traffico mail e ascolto ambientale tramite i computer.

Poi, sempre nella suggestione tecno-logica e pseudoscientifica del nuovo millennio, un fiorire di statistiche, diagrammi, percentuali, incroci di dati tra i più curiosi: quante volte gli imputati si sono incontrati nel corso degli anni (…anche a casa loro, tra parenti e conviventi, nonché ai loro stessi processi) e quante volte si sono incontrati… i rispettivi telefoni; in quali giorni della settimana arrivano più plichi incendiari; quali centri urbani siano interessati da più attentati; quali parole preferiscano utilizzare gli anarchici… ma lì si sconfina dallo studio sociologico statistico e comportamentale, ad un altro caposaldo da tribunale…

La suggestione di una perizia

In questo processo balza agli occhi evidente una tecnica sartoriale per attribuire i reati specifici ai singoli imputati. Per dar corpo alle supposizioni accusatorie viene fatto un utilizzo massiccio di perizie grafiche, linguistico-stilistiche per attribuire ad un paio di imputati la scrittura di alcuni testi rivendicativi.

Detta così sembrerebbe una cosa seria (e lo è in quanto funge da pretesto per la custodia cautelare), addentrandosi nella lettura di una moderna perizia che utilizza sia la tecno-logica che la mente umana si vede però quanto i metodi utilizzati siano discutibili e malleabili ed i risultati aleatori.

Da un lato è evidente la scelta di procedere ignorando scientemente i risultati contraddittori rispetto alle tesi da sostenere, per cui i confronti con esiti negativi vengono ignorati e si setacciano i testi cercandone di adattabili al bisogno. Termini di uso comune o propri del linguaggio politico-poetico anarchico diventano caratterizzanti tanto che in questo parossismo di abbinamenti abbondano le attribuzioni… cioè ne escono fuori delle più disparate, che pure travalicano le accuse ed imputazioni stesse.

Il meccanismo repressivo è ben consapevole dell’inconsistenza di determinati confronti e perizie – e lo ammette pure tra le righe – però è parimenti consapevole che l’utilizzo del DNA e di altre perizie tecnico-scientifiche è stato venduto all’opinione pubblica come tecnologia certa ed inoppugnabile e così si cerca di utilizzarlo anche in tribunale. In realtà la casistica di errori manipolazioni ed approssimazioni è notevole (ed ormai pure la giurisprudenza è costretta ad ammetterlo, dopo i primi anni di utilizzo “acritico” di qualsiasi reperto biologico). Ne abbiamo traccia anche di recente, in giro per il mondo, in processi che hanno riguardato compagni.

Da questo compulsivo raccattamento di materiali e confronti incrociati si ricavano però alcuni dati sulla loro raccolta e utilizzo sistematici.

Il DAP si offre come serbatoio, oltre che di foto segnaletiche ed impronte, anche di altre tracce di carcerazioni passate, fornendo schede personali e reperti grafici di tutti gli anarchici transitati per le patrie galere, cavando fuori dai propri archivi addirittura corrispondenze, istanze, domandine, etc. Se un arresto o una perquisizione non ci sono stati si arriva addirittura all’anagrafe o altri archivi cittadini.

Svariate banche-dati del DNA sono in uso da più di 10 anni, non solo con i prelievi fatti durante perquisizioni, ma conservando campioni e facendo confronti incrociati di reperti in possesso ai vari archivi.

Questi sono solo alcuni aspetti, da ampliare e su cui ragionare. Rimane il discorso che, in un quadro dove i procedimenti repressivi sono vasi comunicanti, l’assenza è accusatoria, la solidarietà è un’aggravante, se Scripta Manent cercava di colpire alcuni anarchici, ha invece contribuito a far fiorire solidarietà e consapevolezza e questo – a conti fatti – nonostante la ristrettezza del mio attuale orizzonte, non può che continuare a farmi sorridere.

Anna
Roma, Gennaio 2018