Titolo: La verità sulla vita primitiva
Sottotitolo: Una critica all’anarcoprimitivismo
Autore: Ted Kaczynski
Data: 2014
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    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    Nota conclusiva

    Elenco delle opere per cognome dell’autore

    Opere senza nome dell’autore

Nota del traduttore, RadioAzione[Croazia]: Dato che il testo originale in lingua inglese presenta 313 note a piè di pagina, si è scelto in questa edizione, per facilitare la lettura, di inserire direttamente nel testo i riferimenti alle opere e agli autori, e di mantenere come note in calce solo quelle più estese che approfondiscono il testo.

* * * * *

I

Così come la Rivoluzione industriale procedeva, la società moderna si creò il mito dell’autogratificazione, il mito del “progresso”. Dai tempi dei nostri antenati remoti, gli ominidi, la storia umana è stata una marcia incessante verso un futuro migliore, in cui tutti allegramente accoglievano ogni nuovo progresso tecnologico: l’addomesticamento degli animali, l’agricoltura, la ruota, la costruzione delle città, l’invenzione della scrittura e della moneta, i velieri, la bussola, la polvere da sparo, la stampa, la macchina a vapore e, in fine, la suprema conquista umana – la moderna società tecnologica! Prima dell’industrializzazione quasi tutti erano condannati ad una vita miserabile, fatta di continuo faticoso lavoro, di malattie provocate dalla malnutrizione e di morti premature. Non siamo forse abbastanza fortunati di vivere in questi tempi moderni ed avere così tante comodità e una schiera di comfort tecnologici che ci facilitano la vita? Penso che oggi esistano relativamente poche persone intelligenti, sincere e ben informate che ancora credono in questo mito. Per perdere la propria fede nel “progresso” basta solamente guardarsi intorno, e vedere la devastazione del nostro ambiente, la diffusione delle armi nucleari, l’eccessiva frequenza della depressione, dell’ansia e dello stress psicologico, il vuoto spirituale di una società che si nutre principalmente di televisione e di video-giochi... e così avanti.

Il mito del progresso può essere ancora in vita, ma sta morendo. Il suo posto è stato preso da un nuovo, un mito che è stato promosso specialmente dagli anarcoprimitivisti, ma ha trovato diffusione anche negli altri ambienti. Secondo questo mito prima dell’avvento della civiltà nessuno ha mai dovuto lavorare, le persone semplicemente raccoglievano il proprio cibo dagli alberi e lo mettevano in bocca, trascorrendo il resto della loro giornata giocando a giro-giro-tondo come i figli dei fiori. Gli uomini e le donne erano eguali, non c’erano malattie, né competizione, razzismo, sessismo o omofobia, le persone vivevano in armonia con gli animali e tutto era amore, condivisione e collaborazione.

In verità, questo è solo una caricatura della visione anarcoprimitivista. La maggior parte di loro – spero – non si è proprio così tanto allontanata dalla realtà. Ciò nonostante, sono comunque distanti dalla realtà, ed è veramente ora che qualcuno screditi il loro mito. Perché questo è l’intenzione del mio articolo. Parlerò molto poco di aspetti positivi delle società primitive. Tuttavia, voglio subito dire che sono d’accordo con quelli che ritengono queste società una cosa importante. In altre parole, il mito anarcoprimitivista non è al cento per cento mito; contiene anche certi elementi reali.

II

Iniziamo con il concetto della “abbondanza primitiva”. Sembra che questo sia un articolo di fede tra gli anarcoprimitivisti, cioè che i nostri antenati cacciatori-raccoglitori dovevano lavorare in media solo due-tre ore al giorno, o da due a quattro ore al giorno... le ore variano, ma il massimo stabilito non supera mai le quattro ore al giorno, o 28 ore alla settimana (in media)[1]. Le persone che stabiliscono queste ore di solito non spiegano precisamente cosa intendono per “il lavoro”, ma il lettore è portato a pensare che esse includono tutte le attività necessarie per soddisfare tutti i bisogni della vita dei cacciatori-raccoglitori.

E’ peculiare il fatto che gli anarcoprimitivisti solitamente evitano di citare la fonte di questa presunta informazione, però sembra che derivi principalmente da due testi, uno di Marshall Sahlins (The Original Afluent Society, pp.1-39) e l’altro di Bob Black (Primitive Afluence). Sahlins afferma che per i boscimani della regione di Dobe in Africa meridionale, “la settimana lavorativa consisteva in circa 15 ore” (op.cit., p.21). Per questa informazione si è appoggiato agli studi di Richard B. Lee. Io non possiedo un accesso diretto ai lavori di Lee, ma ho una copia dell’articolo di Elizabeth Cashdan, in cui riassume i risultati di Lee con molta più attenzione e in modo più esauriente di Sahlins (Cashdan, Hunters and Gatherers: Economic Behavior in Bands). Cashdan categoricamente smentisce Sahlins: secondo lei, Lee ha scoperto che i boscimani da lui studiati lavorano più di quaranta ore alla settimana (Ibid., p.23).

In un punto del suo saggio, che molti anarcoprimitivisti hanno trovato conveniente omettere, Bob Black ammette la settimana lavorativa di quaranta ore e spiega la su citata contraddizione: Shalins si era basato sui primi lavori di Lee, in cui aveva preso in considerazione solo il tempo speso in caccia e raccolta. Quando tutto il lavoro necessario fu preso in considerazione la settimana lavorativa era più che raddoppiata (Bob Black, pp.12-13; Cashdan, pp.23-24). Il lavoro non considerato da Sahlins e dagli anarcoprimitivisti era probabilmente anche la parte più sgradevole della settimana lavorativa dei boscimani, dato che consisteva soprattutto in preparazione di cibo e raccolta della legna da ardere (Cashdan, p.24). Parlo in base alla mia ampia esperienza personale con il cibo selvatico. Preparare questo tipo di cibo molto spesso è davvero seccante. E’ molto più piacevole raccogliere le noci, scavare le radici o cacciare la selvaggina, che spaccare le noci, pulire le radici o scuoiare e macellare la selvaggina – o raccogliere legna da ardere e cucinare su un fuoco aperto.

Gli anarcoprimitivisti sbagliano anche nel supporre che le ricerche di Lee si possono applicare ai cacciatori-raccoglitori in generale. Non è neanche chiaro se queste ricerche possono essere applicate ad un anno intero dei boscimani studiati da Lee. Cashdan riporta la prova che le ricerche di Lee potevano essere state fatte in un periodo dell’anno quando i suoi boscimani lavoravano di meno (p.24). Lei menziona anche due altri popoli cacciatori-raccoglitori che hanno dimostrato di impiegare molto più tempo nella caccia e raccolta, in confronto ai boscimani di Lee (pp.24-25), e fa notare che Lee ha potuto seriamente sottovalutare il tempo del lavoro femminile, perché non ha incluso il tempo impiegato nella cura dei bambini (p.26).

Non conosco nessun altro esatto studio quantitativo sulle ore di lavoro dei cacciatori-raccoglitori, ma è indubbio che certi altri cacciatori-raccoglitori lavoravano più delle quaranta ore settimanali dei boscimani di Lee. Gontran de Poncins afferma che gli eschimesi con cui ha vissuto nel 1939-1940 non possedevano un “significante livello di tempo libero”, e che “faticavano e sgobbavano quindici ore al giorno solo per ottenere cibo e sopravvivere” (Poncins, pp.11-126). Probabilmente non voleva dire che lavoravano quindici ore ogni giorno, però dal suo resoconto risulta chiaro che i suoi eschimesi lavoravano molto pesantemente.


Tra i pigmei Mbuti, studiati principalmente da Paul Schebesta, nei giorni quando le donne non riescono a raccogliere abbastanza frutti e verdure dagli orti dei loro vicini, abitanti nel villaggio, la loro escursione nella foresta in cerca di cibo dura tra cinque e sei ore. Oltre la raccolta di cibo, le donne hanno del considerabile lavoro aggiuntivo da svolgere. Ogni pomeriggio, ad esempio, una donna deve andare di nuovo nella foresta e tornare nel campo ansimante e incurvata sotto un gran carico di legna da ardere. Le donne lavoravano molto più degli uomini, ma sembra chiaro dal resoconto di Schebesta che gli uomini comunque lavoravano molto più delle tre o quattro ore al giorno, come affermano gli anarcoprimitivisti[2]. Colin Turnbull ha studiato i pigmei Mbuti che cacciano con le reti. Grazie al vantaggio dato dalle reti, questi Mbuti devono cacciare solo venti ore alla settimana. Ma per loro: “Fare le reti è in realtà un’occupazione a tempo pieno... a cui sia uomini che donne si dedicano ogni volta quando hanno tempo libero e propensione” (Turnbull, Change and Adaptation, p.18; Forest People, p.131). I Siriono, che vivevano nella foresta tropicale della Bolivia, non erano dei veri e propri cacciatori-raccoglitori dato che coltivavano mais, in misura limitata e in certi periodi dell’anno. Però vivevano soprattutto di caccia e raccolta (Holmberg, pp.48–51, 63, 67, 76–77, 82–83, 223, 265). Secondo l’antropologo Holmberg, gli uomini Siriono cacciavano in media ogni due giorni (pp.75-76). Partivano all’alba e tornavano al campo solitamente tra le quattro e le sei di pomeriggio (pp.100-101). Questo, sommando, fa almeno undici ore di caccia, o tre giorni e mezzo per settimana, che sarebbe 38 ore di caccia a settimana, come minimo. Dato che gli uomini svolgevano un significativo ammontare di lavoro nei giorni quando non cacciavano (pp.63, 76, 100), la loro settimana lavorativa, in media annuale, consisteva in ben oltre le 40 ore. E solo una piccola parte di questo consisteva di lavoro agricolo (p.223). In effetti, Holmberg ha calcolato che i Siriono spendono circa metà del loro tempo diurno in caccia e raccolta (p.222), che significherebbe circa 56 ore alla settimana solo per queste attività. Sommando anche altri lavori la settimana lavorativa doveva consistere in più di 60 ore. Le donne Siriono “godono di ancora meno riposo dal lavoro che i loro mariti”, e “l’obbligo di portare i propri figli alla maturità le lascia ancora meno tempo per il riposo” (p.224). Il libro di Holmberg contiene molte altre indicazioni sul peso del lavoro che i Siriono dovevano svolgere.


Nella sua opera The Original Affluent Society, Shalins riporta, in aggiunta ai boscimani di Lee, altri esempi di popoli cacciatori-raccoglitori che apparentemente lavoravano poco, ma nella maggior parte di questi casi non offre neanche una stima quantitativa del tempo lavorativo, o offre una stima solo per il tempo speso nella caccia e raccolta. Se i boscimani di Lee possono essere presi come esempio, questo sarebbe ben sotto della metà del totale tempo lavorativo (Cashdan, p.23). Tuttavia, per due gruppi di aborigeni australiani Sahlins offre una stima quantitativa del tempo speso in “caccia, raccolta delle piante, preparazione di cibo e riparazione delle armi”. Nel primo gruppo ogni lavoratore spendeva per queste attività, in media per settimana, circa 26 ore e mezzo; nel secondo gruppo circa 36 ore. Ma questo non include tutto il lavoro; non dice niente, ad esempio, sul tempo impiegato nella cura dei bambini, nella raccolta della legna, nello spostamento del campo, o nel fare e riparare utensili invece delle armi. Se tutto il lavoro necessario fosse stato contato, la settimana lavorativa del secondo gruppo sicuramente ammonterebbe a più di 40 ore. La settimana lavorativa del primo gruppo non rappresenta una banda normale dei cacciatori-raccoglitori, dato che il primo gruppo non ha bambini da nutrire. Lo stesso Sahlins, inoltre, si interroga sulla validità delle conclusioni basate su questi dati (pp.15-17, 38-39). Naturalmente, anche se degli esempi sporadici potrebbero essere trovati su popoli cacciatori-raccoglitori il cui tempo lavorativo totale non supera le tre ore al giorno, non significherebbe molto per questi scopi, dato che qua non ci occupiamo di casi sporadici, ma del tempo lavorativo dei tipici cacciatori-raccoglitori. Qualunque cosa siano state le ore di lavoro dei cacciatori-raccoglitori, la maggior parte del loro lavoro era fisicamente molto pesante. Gli uomini Siriono percorrevano circa quindici miglia al giorno nelle loro escursioni di caccia, e certe volte addirittura quaranta miglia (Holmberg, pp.107, 222). Percorrere una tale distanza in un territorio selvaggio senza sentieri[3] richiede molto più sforzo che percorrere la stessa distanza su una strada o su un sentiero.

“Camminando e correndo attraverso le paludi e la giungla, i cacciatori nudi sono esposti alle spine e alle punture degli insetti... Anche se la ricerca di cibo è gratificante perché gli alimenti per la sopravvivenza si trovano sempre in qualche modo, è anche sempre estenuante a cause della fatica e delle difficoltà inevitabilmente collegate alla caccia, pesca e alla raccolta di cibo.” (Holmberg, p.249) “Gli uomini spesso scagliano la propria rabbia contro gli altri uomini durante la caccia... Anche se non uccidono niente, comunque tornano a casa infuriati.”(Ibid., p.157).

Per i Siriono anche la raccolta della frutta selvatica può rappresentare un pericolo (pp.65, 249) e può richiedere un lavoro considerevole (p.65)[4]. I Siriono usano poco le radici selvatiche (Holmberg, p.65), ma è risaputo che molti cacciatori-raccoglitori ne fanno un largo uso nella loro alimentazione. Generalmente la raccolta delle radici commestibili nelle foreste non è come tirar fuori le carote dal morbido suolo coltivato dell’orto. Di solito il suolo è molto sodo o coperto da dure zolle, e devi spaccarla per arrivare alle radici. Vorrei avere la possibilità di portare certi anarcoprimitivsti sulle montagne, mostrarli dove crescono le radici commestibili e invitarli a procurarsi la cena scavandole. Quando avrebbero raccolto abbastanza radici di perideridia o bulbi di camas per un mezzo pasto decente, le loro mani coperte di vesciche li toglierebbero ogni illusione che i primitivi non dovevano lavorare per vivere. Il lavoro dei cacciatori-raccoglitori era spesso anche monotono. Questo è vero, ad esempio, quando si scavano le radici piccole, com’è il caso di molte radici usate dagli Indiani del Nordamerica occidentale, la lewisia rediviva e le su citate perideridia e camas. Raccogliere le bacche è monotono se trascorri molte ore facendo solo questo.


O provate a conciare la pelle del cervo. La grezza, secca pelle del cervo è dura come il cartone, e se la pieghi si spacca, come succederebbe al cartone. Per poterla usare come vestiario o coperta, la pelle animale deve essere conciata. Presumendo che vuoi lasciare i peli sulla pelle, per vestirla d’inverno, ci sono solo tre passi indispensabili per conciare la pelle del cervo. Primo, devi rimuovere con attenzione ogni pezzetto di carne dalla pelle. Con molta cura devi raschiare soprattutto il grasso, perché ogni pezzetto di grasso lasciato sulla pelle la farà marcire. Poi, la pelle deve essere ammorbidita. Infine, deve essere affumicata. Se non viene affumicata, dopo essersi bagnata diverrà dura e rigida, e dovrà essere nuovamente ammorbidita. L’ammorbidimento è il passo che richiede il lavoro più lungo. La pelle deve essere impastata tra le mani per molte ore, o stirata sopra la testa di uno spuntone infilato in un pezzo di legno, e il lavoro è davvero monotono. Parlo dall’esperienza personale. Un argomento a volte usato è che i cacciatori-raccoglitori sopravvissuti fino ad oggi vivono negli ambienti inospitali, poiché tutte le terre più ospitali sono state occupate dai popoli agricoltori. Sembra che i cacciatori-raccoglitori preistorici che occupavano territori fertili lavoravano molto meno degli odierni cacciatori-raccoglitori, che vivono nei deserti o negli altri ambienti improduttivi (argomento proposto da, esempio, William A. Haviland, p.167). Questo può anche essere vero, ma l’argomento è speculativo, e mi lascia dei dubbi.

Oggi sono piuttosto arrugginito, ma avevo una considerevole familiarità con le piante commestibili degli Stati Uniti orientali, una delle più fertili regioni al mondo, e mi sorprenderebbe se qualcuno potrebbe vivere e allevare una famiglia in questi luoghi cacciando e raccogliendo meno di quaranta ore al giorno. Nella regione è presente una grande varietà di piante commestibili, ma cibarsi solo di esse non sarebbe così facile come può sembrare. Raccogliere noci, ad esempio. Noci nere, noci cineree e noci americane sono estremamente nutritive e spesso abbondano. Gli Indiani le raccoglievano a mucchi (Fernald – Kinsley, p.149). Se trovi un paio di buoni alberi in ottobre, probabilmente potresti raccogliere in un’ora o meno abbastanza noci per mangiare tutto il giorno. Suona bene, vero? Sì, veramente suona bene – se non hai provato a rompere una noce nera. Forse Arnold Schwarzenegger riuscirebbe a rompere una noce nera con un semplice schiaccianoci – se non si spezza prima lo schiaccianoci – ma una persona di fisico medio non potrebbe farlo. Devi rompere la noce con il martello; e l’interno della noce è diviso in parti che sono grosse e dure come il guscio, quindi deve spezzare la noce in più pezzi e poi pazientemente togliere l’interno. E’ un lavoro che richiede tempo. Per ottenere abbastanza cibo per un solo giorno potresti spendere gran parte della giornata rompendo noci e togliendo parti interne. Le noci cineree selvatiche (da non confondere con le noci inglesi domestiche che puoi comprare in ogni negozio) sono quasi come le nere. Le noci americane non sono così difficili da rompere, però hanno comunque la parti interne dure, che sono solitamente molto più piccole delle noci nere. Gli Indiani hanno raggirato questi problemi inserendo le noci in un mortaio e frantumandole in piccole parti, il guscio e l’interno insieme. Poi bollivano il tutto e lasciavano a raffreddare. I pezzi del guscio si depositavano sul fondo del recipiente, mentre l’interno polverizzato si fermava nello strato sopra i gusci; in questo modo l’interno poteva essere separato dai gusci (Ibid., p.148, Gibbons, p.217). Questo era sicuramente molto più efficiente che rompere le noci una ad una, ma come si può notare richiede comunque del tempo considerevole. Gli Indiani degli Stati Uniti orientali utilizzavano anche altre piante commestibili, ma che richiedevano una più o meno laboriosa preparazione per renderle edibili (gli esempi sono stati trovati in Fernald – Kinsey, passim). Difficilmente avrebbero fatto uso proprio di queste piante se quelle più facili da preparare fossero state abbondanti.

Euell Gibbson, un esperto di piante selvatiche commestibili, riporta un episodio di vita in campagna negli Stati Uniti orientali (Gibbons, capitolo intitolato The Proof of the Pudding). E’ difficile dire cosa può la sua esperienza spiegare sulle ore lavorative degli uomini primitivi, dato che non offre un resoconto quantitativo del tempo impiegato nella raccolta. In ogni caso, lui e i suoi compagni solamente raccoglievano il cibo e lo preparavano; loro non avevano da conciare le pelli o farsi i vestiti, attrezzi, utensili o un riparo; non avevano bambini da sfamare; e integravano la loro dieta con cibo altamente calorico acquistato nei negozi: olio da cucina, zucchero e farina. E perlomeno una volta si sono serviti di una macchina per il trasporto.

Però, assumiamo, giusto a titolo esemplificativo, che nelle regioni fertili del mondo il cibo selvatico era così abbondante che era possibile vivere lavorando, diciamo, solo tre ore al giorno. Con delle risorse così abbondanti i cacciatori-raccoglitori non avrebbero avuto il bisogno di fare molta strada in cerca di cibo. Uno si aspetterebbe che sarebbero diventati sedentari, e in questo caso avrebbero avuto la possibilità di accumulare dei beni, e formare delle gerarchie sociali ben sviluppate. In questo modo avrebbero perso almeno alcune delle qualità che gli anarcoprimitivisti apprezzano nei cacciatori-raccoglitori nomadi. Neanche gli anarcoprimitivisti negano che gli Indiani della costa nordoccidentale statunitense erano cacciatori-raccoglitori sedentari che avevano accumulato beni e ben sviluppato le gerarchie sociali (Coon, The Hunting Peoples, pp.36, 179-180, 226, 228, 230, 262). Questa testimonianza ci suggerisce l’esistenza di simili società di cacciatori-raccoglitori in altre parti del mondo, dove l’abbondanza delle risorse naturali lo permetteva, come ad esempio lungo i fiumi principali dell’Europa (Cashdan, p.22; Coon, pp.268-269, 390, vedi anche pagina 253). In questo modo gli anarcoprimitivisti cadono in trappola: dove le risorse naturali erano abbondanti a sufficienza per minimizzare il lavoro, nello stesso tempo esse massimizzano le probabilità dello sviluppo delle gerarchie sociali, che gli anarcoprimitivsti tanto aborrano.


Tuttavia, io non sto cercando di dimostrare che l’uomo primitivo era meno fortunato nella sua vita lavorativa dell’uomo moderno. Io penso che è vero il contrario. Probabilmente certi cacciatori-raccoglitori avevano più tempo libero di un americano moderno che lavora. E’ anche vero che le circa quaranta ore lavorative alla settimana dei boscimani di Richard Leee sono quasi uguali allo standard della settimana lavorativa americana. Però, gli americani moderni sono gravati da numerosi compiti anche all’infuori dal posto di lavoro. Io stesso, quando avevo un lavoro di quaranta ore, mi sentivo di solito molto occupato; dovevo fare la spesa, andare in banca, fare il bucato, fare la dichiarazione dei redditi, portare la macchina dal meccanico, andare a tagliarmi i cappelli, dal dentista... c’era sempre qualcosa che doveva essere fatto. Molte delle persone che conosco si lamentano di essere anche loro sempre occupate in qualcosa. A differenza, il tempo del maschio boscimane era genuinamente il suo tempo personale, fuori dalle sue ore di lavoro; poteva spendere il suo tempo non-lavorativo come gli pareva. Le donne boscimani di età riproduttiva avevano probabilmente molto meno tempo libero, perché, come le donne di ogni società, portavano il peso della cura dei bambini.

Però, il tempo libero è un concetto moderno, e l’importanza che gli anarcoprimitivisti danno ad esso sottolinea la loro sottomissione ai valori della civiltà che loro sostengono di rifiutare. Non è il fatto dell’ammontare del tempo impiegato nel lavoro. Molti autori hanno già discusso su cosa c’è di sbagliato nel lavoro della società moderna, e quindi non vedo motivo di ritornarci di nuovo sullo stesso argomento. Il fatto è, a parte la monotonia, che quello che è sbagliato nel lavoro della società moderna non è sbagliato nel lavoro dei cacciatori-raccoglitori nomadi. Il lavoro dei cacciatori-raccoglitori è una sfida, sia in termini dello sforzo fisico che in termini del livello di abilità richieste (per le abilità vedi es. Poncins pp.14-15, 38-39, 160, 209-210; Schebesta, II. Band, I. Teil, p.7; Holmberg pp.120-121, 275; Coon, pp. 14, 49, 75, 82-83). Il lavoro dei cacciatori-raccoglitori è finalizzato, e il suo fine non è astratto, remoto o artificiale, ma concreto, molto reale e di importanza diretta per il lavoratore: lavora per soddisfare i propri bisogni fisici, della sua famiglia e delle altre persone a lui vicine. Ma soprattutto, il cacciatore-raccoglitore nomade è un lavoratore libero: non è sfruttato, non è sottomesso a nessun capo, nessuno gli impartisce degli ordini[5] e da solo crea la propria giornata lavorativa, se non come individuo allora come membro di un gruppo abbastanza piccolo dove ogni individuo può partecipare in modo significativo nelle decisioni[6]. I lavori moderni tendono ad essere stressanti, ma ci sono ragioni per credere che anche il lavoro degli uomini primitivi conteneva un po’ di stress psicologico[7]. Il lavoro dei cacciatori-raccoglitori è spesso monotono, ma io penso che la monotonia agli uominiti primitivi generalmente causava ben poco fastidio. La noia, penso, è in gran parte un fenomeno civilizzato, un prodotto degli stress psicologici, caratteristici per la vita civilizzata. Questo, ovviamente, è un’opinione personale, che non posso provare, e la discussione su questo ci porterebbe lontani dallo scopo di questo articolo, in cui dirò solamente che la mia opinione si basa in gran parte sulla mia esperienza personale di vita all’infuori del sistema tecno-industriale. Cosa sentivano i cacciatori-raccoglitori verso il proprio lavoro è difficile dire, anche perché sembra che gli antropologi e le altre persone che visitarono i popoli primitivi (almeno quelli che ho letto io) non si ponevano questo tipo di domanda. Va comunque osservato il seguente passo di Holmberg: “Sono relativamente apatici verso il lavoro (taba taba) che include compiti sgradevoli come la costruzione delle abitazioni, la raschiatura o raccogliere la legna, preparare il suolo e seminare. A categorie assai diverse appartengono le occupazioni piacevoli come la caccia (gwata gwata) e la raccolta (deka deka, “cercare”), che sono considerate più uno svago che lavoro vero e proprio” (Holmberg, p.101).

E questo nonostante il fatto, come abbiamo visto prima, che la caccia e la raccolta dei Siriono sono estremamente faticose, stremanti, e richiedono molto tempo e molto sforzo fisico.

III

Un altro elemento del mito anarcoprimitivista è credere che i cacciatori-raccoglitori, almeno i nomadi, possedevano l’eguaglianza dei generi. Lo afferma ad esempio John Zerzan in Futuro primitivo[8] e in altre opere[9]. Probabilmente in certe società di cacciatori-raccoglitori esisteva una piena uguaglianza tra i sessi, tuttavia non conosco nessun esempio irrefutabile. Conosco però culture di cacciatori-raccoglitori che avevano un relativamente alto grado di uguaglianza dei generi, ma comunque non presentavano una piena uguaglianza. Nelle altre società dei cacciatori-raccoglitori la dominazione maschile era inconfondibile, e in certe società aveva addirittura raggiunto il livello di una vera e propria brutalità verso le donne. Probabilmente il più divulgato esempio di uguaglianza dei generi tra i cacciatori-raccoglitori è quello dei boscimani di Richard Lee, già menzionato in questo articolo nella discussione sulla vita lavorativa dei cacciatori-raccoglitori. C’è subito da dire che sarebbe molto rischioso pensare che le tesi di Lee sui boscimani Dobe possono essere applicate anche ai boscimani della regione di Kalahari in generale. Gruppi differenti di boscimani si differenziano culturalmente (Thomas, pp.11, 284-87); non parlano neanche tutti la stessa lingua[10]. In ogni modo, appoggiandosi ampiamente sugli studi di Ricard Lee, Nancy Bovillain afferma che tra i boscimani Dobe (che lei chiama “Ju/‘hoansi”) “le norme sociali chiaramente sostengono la nozione di eguaglianza tra donne e uomini” (Bonvillain, Women and Men: Cultural Constructs of Gender, p.21), e che la loro società apertamente convalida l’uguaglianza tra le donne e gli uomini (Ibid, p.24). Quindi, i boscimani Dobe possiedono l’uguaglianza dei generi, giusto?

O forse no. Guardiamo alcuni fatti che la stessa Bonvillain ci offre nello stesso libro: “La maggior parte dei capi e dei portavoce del campo sono uomini. Nonostante questo le donne e gli uomini partecipano insieme nelle discussioni di gruppo e nelle decisioni... nelle discussioni di entrambi i generi gli uomini parlano per circa due terzi del tempo”(Ibid., p.21).


Molto peggio sono i matrimoni forzati tra le ragazze nella prima età adolescenziale e gli uomini molto più vecchi (ibid., pp.21-22). E’ vero che le pratiche che a noi sembrano crudeli non devono essere vissute allo stesso modo nelle altre culture a cui sono imposte. Ma la Bonvillain riporta le parole di una donna boscimana che dimostrano che almeno qualche ragazza trovava crudele il matrimonio forzato: “Ho pianto e pianto” (Ibid., p.22); “Sono fuggita più volte. Una parte del mio cuore continuava a pensare: com’è possibile che io, bambina, mi sono sposata?” (Ibid., p.23). Inoltre, “perché l’anzianità conferisce prestigio... la maggiore età, l’esperienza e la maturità dei mariti può trasformare le mogli in persone socialmente, se non personalmente, sottomesse” (Ibid., pp.21-22). Perciò, anche se i boscimani Dobe posseggono indubbiamente alcuni elementi dell’uguaglianza dei generi, uno dovrebbe molto allargare questo concetto per affermare che vivono in piena uguaglianza dei generi. In base all’esperienza personale Colin Turnbull dice che tra i pigmei Mbuti dell’Africa “la donna non è in nessun modo inferiore all’uomo” (Turnbull, Wayward Servants, p.270), e che “la donna non è discriminata in confronto” (Turnbull, Forest People, p.154). Questo suona come uguaglianza dei generi... finché non osservi i fatti concreti che lo stesso Turnbull riporta nello stesso libro: “Picchiare la moglie ogni tanto è considerato positivo, e ci si aspetta che la donna si difenda” (Turnbull, Wayward Servants, p. 287); “Dice che è molto soddisfatto della propria moglie, e che non ha trovato necessario picchiarla molto spesso” (Turnbull, Forest People, p. 205); l’uomo ha gettato la moglie a terra e l’ha schiaffeggiata (Turnbull, Wayward Servants, p.211); il marito ha picchiato la moglie (Ibid., p.192); l’uomo ha picchiato la sorella (Turnbull, Forest People, p.204); Kenge ha picchiato la sua sorella (Ibid., pp.207-208); “Forse doveva picchiarla meglio, Tungana [un vecchio] disse, che a certe ragazze piace essere picchiate” (Ibid., p.208); “Amabosu controbatteva dandole un forte schiaffo sul viso. Normalmente Ekianga avrebbe approvato una tale affermazione di autorità su una moglie infedele.” (Ibid., p.122). Turnbull menziona due casi di uomini che davano ordini alle proprie mogli (Turnbull, Wayward Servants, pp. 288–289; Forest People, p.265). Nel libro di Turnbull non ho trovato nessun caso in cui le mogli danno ordini ai propri mariti. La cannuccia della pipa ottenuta dalla moglie è considerata la proprietà del marito (Turnbull, Forest People, pp.115–116). “[Un ragazzo] deve avere il permesso [della ragazza] per il rapporto sessuale. Gli uomini dicono che una volta che hanno dormito con una ragazza, se vogliono possono comunque prenderla di sorpresa, quando la baciano, e forzarla al loro desiderio” (Turnbull, Wayward Servants, p.137). Oggi chiameremmo questo “stupro su appuntamento”, e il giovane coinvolto rischierebbe una condanna a lunghi anni di carcere.

Ai fini di equilibrio notiamo però che Turnbull tra gli Mbuti non ha trovato nessun caso di quello che noi chiamiamo “stupro di strada” come opposto allo “stupro su appuntamento”[11]; i mariti non dovevano colpire le mogli in testa o sul viso[12]; e se succedeva che l’uomo iniziava a picchiare la moglie troppo spesso e severamente, i suoi compagni di campo infine trovavano i mezzi per porre fine all’abuso, senza incorrere all’uso della forza e senza un’intromissione aperta (Ibid, p.287-289). Si dovrebbe tenere a mente che il significato della violenza dipende dal contesto culturale. Nella nostra società rappresenta una grande umiliazione essere colpiti da un’altra persona, soprattutto quando è più grossa e più forte di noi. Ma dato che le percosse sono un luogo comune tra gli Mbuti (numerosi esempi si possono trovare in Wayward Servants e in Forest People), si può probabilmente presumere che non le considerano particolarmente umilianti. Ciononostante, è piuttosto chiaro che un certo livello di dominazione maschile era comunque presente tra gli Mbuti. Tra i Siriono: “La donna è sottomessa al proprio marito” (Holmberg, p.125); “la famiglia estesa è in genere dominata dal più anziano maschio attivo” (Ibid., p.129); “[le donne] sono dominate dagli uomini” (Ibid., p.147); “se un uomo si trova da solo con una donna nella foresta,... può gettarla bruscamente a terra e prendere il suo bottino [sesso] senza dire una parola” (Ibid., p.163); i genitori definitivamente preferiscono avere figli maschi (Ibid., p.202); “sebbene il titolo ererekwa è riservato agli uomini per il capo, se si chiede ad una donna: ‘chi è il tuo ererekwa’?, lei immancabilmente risponderà: ‘mio marito’” (Ibid., p.148). Dall’altra parte però, i Siriono non picchiano mai le proprie mogli (Ibid., p.128) e “le donne godono degli stessi privilegi degli uomini. Ricevono altrettanto o più cibo da mangiare, e godono della stessa libertà sessuale” (Ibid., p.147). Secondo la Bonvillain gli uomini eschimesi “dominano le loro mogli e le figlie. Il dominio maschile non è totale, però...” (Bonvillain, p.295). Descrive anche le relazioni di genere tra gli Eschimesi in alcuni dettagli (Ibid., pp.38-45), che possono, o anche no, essere stati distorti per riflettere la sua ideologia femminista.


Tra gli eschimesi con i quali viveva Gontran de Poncins, i mariti esercitavano visibilmente l’autorità sulle proprie mogli (Poncins, pp. 113–114, 126), e talvolta le picchiavano (Ibid., p.198; vedi anche p.117). Però, attraverso il loro talento di persuasione le mogli detenevano un grande potere sui propri mariti: “Potrebbe sembrare... che la donna nativa viveva in uno stato di totale umiliante inferiorità al maschio eschimese, ma questo non è vero. Quello che lei perde in autorità, paragonata alla donna bianca, lo guadagna, con una superiore astuzia, in molti altri modi. Le donne native sono molto sagaci e riescono quasi sempre ad ottenere quello che vogliono”; “Era un piacere continuo guardare questa commedia, questa lotta quasi senza parole nella quale la moglie... inevitabilmente otteneva il sopravvento sul marito. Non esiste una donna eschimese inesperta nell’arte di adulazione, una donna incapace di ripetere senza posa e anche insinuante insistenza quello che desidera, finché il marito, esausto da sua persistenza, non si arrende”; “le donne stanno dietro ogni cosa in questo mondo degli eschimesi” (Ibid., pp. 114-115); “non serve essere femministe per chiedersi: ‘Ma qual è lo status delle donne eschimesi?’ Il loro status le soddisfa abbastanza; e ho suggerito in diverse parti di queste pagine che loro non sono solamente amanti dei mariti, ma anche, nella maggior parte delle famiglie eschimesi, sagaci consigliere nelle decisioni dei mariti” (Ibid., p.126). Però, Poncins ha forse ingrandito il grado del potere delle donne eschimesi, perché la capacità di evitare il sesso indesiderato è insufficiente: il prestito della moglie tra questi eschimesi era stabilito dagli uomini, e le mogli dovevano accettare di essere prestate, piaceva loro o meno (Ibid., p.113). E perlomeno in alcuni casi sembra che le donne ne soffrivano molto[13]. Gli aborigeni australiani trattavano le loro donne in modo orrendo. Le donne non avevano quasi nessun potere nella scelta dei propri mariti (Elkin, pp.132-133; Massola, p.73). Sono descritte come “possedimento” degli uomini, che scelgono loro i mariti (Massola, pp.74, 76). Le giovani ragazze sono spesso costrette a sposare uomini più vecchi, e in più devono lavorare per fornire ai mariti anziani i loro bisogni (Ibid., p.75; Elkin, pp.133-134). Non sorprende quindi che le giovani ragazze spesso si oppongono al matrimonio forzato con la fuga. Se la ragazza persiste nella fuga potrebbe addirittura trovarsi con una lancia infilata nella coscia (Massola, p.76). Una donna intrappolata in un matrimonio ripugnante può consolarsi con un’amante, ma essendo questo “semitollerato” può condurre alla violenza (Elkin, p.136; Massola, pp.73, 75; Coon, pp.260-261). Una donna può anche fuggire con il proprio amante. Però: “Saranno seguiti, e se presi, come punizione la ragazza diventerà, per sempre, la proprietà comune dei suoi inseguitori. La coppia viene allora portata indietro al campo dove, se appartengono al totem adatto per sposarsi, l’uomo può opporsi all’accusa, perché il marito e i suoi parenti hanno scagliato delle lance contro di lui... e la ragazza vine data ai propri parenti per essere picchiata. Se [la coppia] non appartiene al totem adatto per sposarsi, una volta trovati saranno entrambi trafitti, dato che il loro peccato è imperdonabile” (Massola, pp.75-76).

Ma, nonostante le mogli venivano picchiate “nella maggior parte delle famiglie aborigene era presente una vera armonia e mutua comprensione” (Ibid., pp.76-77). Secondo A.P. Elkin in certe circostanze, ad esempio in qualche cerimonia, le donne dovevano sottoporsi al sesso coercitivo, ciò “significa che la donna non è altro che un oggetto da essere usato in modi socialmente stabiliti” (Elkin, pp.135, 137-138). Le donne, dice Elkin, “spesso non obiettano” (Ibid., p.138), ma “talvolta vivono nel terrore dell’uso che si fa di loro in certe cerimonie” (Ibid., p.138, nota 12). Ovviamente, in nessuna parte viene detto che tutte le condizioni sopra menzionate prevalevano in tutte le parti dell’Australia aborigena. La cultura non è uniforme su tutto il continente. Coon dice che gli australiani erano nomadi, ma anche afferma che nella parti dell’Australia sud-orientale, chiamata “la parte più irrigata, particolarmente il territorio di Victoria e del fiume Murray”, gli aborigeni erano “relativamente sedentari” (Coon, pp.105, 217, 253). Secondo Massola nella parti più secche dell’Australia sud-orientale gli aborigeni dovevano percorrere lunghe distanze tra i pozzi che velocemente si prosciugavano, nei periodi di siccità (Massola, p.78). Questo corrisponde all’alto livello di nomadismo descritto nelle altre regioni aride dell’Australia, dove “gli aborigeni si spostavano in piccoli gruppi famigliari da pozzo a pozzo lungo le piste ben definite. L’intero campo si spostava e raramente fondava accampamenti stabili” (Encycl. Brit., Vol. 14, voce “Australia”, p.437). Affermando che in “parti più irrigate” gli aborigeni erano “relativamente sedentari”, Coon indubbiamente intendeva che “nelle regioni fertili c’erano campi ben stabili, vicino all’acqua, dove le persone sempre si accampavano durante certi periodi dell’anno. I campi erano basi da cui le persone partivano per i boschetti circostanti in cerca di cibo, tornando nel tardo pomeriggio o assentandosi anche per più giorni” (Ibid). Coon dice che nella zona ben irrigata del fiume Murray ogni clan territoriale possedeva un capotribù e un consiglio composto soprattutto dagli uomini, sebbene in alcuni casi anche le donne erano elette nel concilio; invece, più vicino al nord e all’ovest c’era poca guida formale e “il controllo sulle donne e i giovani maschi era diviso tra” gli uomini in età dai trenta ai quarant’anni” (Coon, p.253, 255). Quindi, le donne australiane detenevano assai poco potere politico evidente. Tuttavia, come tra gli Eschimesi di Poncino, le donne spesso esercitano, certamente nella nostra società e probabilmente in ogni società, una grande influenza sugli uomini (Massola, p.77).

Anche i tasmaniani erano cacciatori-raccoglitori nomadi (benché alcuni erano “relativamente sedentari”, Coon, pp.105, 217) e non è chiaro se trattavano le donne molto meglio degli australiani. “In un’esposizione abbiamo detto che la banda stanziata presso Hobart Town, antecedente all’arrivo dei colonizzatori, fu saccheggiata dai vicini, che uccisero gli uomini che cercarono di fermarli e si portarono via le donne. Esistono altri esempi di casi individuali di matrimoni per rapimento. Talvolta quando un uomo dalla banda vicina ha il diritto di sposare una ragazza, ma non piace né a lei né ai suoi genitori, viene detto che preferiscono uccidere la ragazza che concederla a lui” (Ibid., p.215), “altre tribù considerano [certe tribù] dei codardi e le attaccano per rapire le donne” (Ibid., p.336); “Woorrady ha violentato e ucciso la propria cognata” (Ibid., p.252).

Devo sottolineare che non è mia intenzione mettere in discussione l’uguaglianza dei generi. Io stesso sono a sufficienza un prodotto della moderna società industriale per pensare che le donne e gli uomini dovrebbero avere posizioni uguali. La mia intenzione è semplicemente esporre i fatti che riguardano i rapporti tra i sessi nelle società dei cacciatori-raccoglitori.

IV

E’ presente un problema in ogni tentativo di trarre conclusioni sulle originarie, “pure” culture dei cacciatori-raccoglitori dalle osservazioni riportate da persone che vivevano in questo tipo di società. Se possediamo una descrizione di una cultura primitiva, questa è regolarmente scritta da una persona civilizzata. Se la descrizione è dettagliata, comunque nel periodo in cui è stata scritta il popolo primitivo descritto avrà già avuto, molto probabilmente, contatti significativi, diretti o indiretti, con la civilizzazione, e simili contatti possono portare a cambiamenti radicali nelle culture primitive. Elizabeth Marshall Thomas, nell’epilogo del suo libro The Harmless People, nell’edizione del 1989 (Thomas, pp.262-303), descrive l’effetto catastroficamente distruttivo della civilizzazione sui boscimani che lei conosceva. Harold B. Barclay ha sottolineato (ad esempio) che gli eschimesi moderni “sono alquanto soddisfatti dei loro potenti fucili, motoscafi e così avanti” (Harold B. Barclay, lettera all’editore, in Anarchy: A Journal of Desire Armed, primavera/estate 2002, pp.70-71). “Così avanti” potrebbe includere anche i gatti delle nevi. Quindi, dice Barclay, “gli odierni raccoglitori non sono in nessun modo identici ai cacciatori-raccoglitori di cento o dieci mila anni fa” (Ibid.). Secondo Cashdan, scritto nel 1989, “tutti i cacciatori-raccoglitori del mondo odierno sono in contatto, direttamente o indirettamente, con l’economia globale. Questo fatto ci dovrebbe far capire che non possiamo guardare gli odierni cacciatori-raccoglitori come delle ‘istantanee’ del passato” (Cashdan, p.21). Naturalmente, nella ricerca delle tracce sul modo di vita degli esseri umani precedente all’avvento della civiltà, nessuno sano di mente si rivolgerebbe alle persone che usano dei motoscafi, gatti delle nevi e fucili potenti[14], o ai popoli le cui culture sono state, in modo evidente, molto alterate dall’intrusione delle società civilizzate. Noi cerchiamo descrizioni dei cacciatori-raccoglitori scritte (come minimo) alcuni decenni fa, e nel periodo quando – per quanto ne sappiamo – le loro culture non erano state seriamente alterate dal contatto con la civiltà. Ma non è sempre facile capire se il contatto con la civilità ha alterato una cultura primitiva. Coon è chiaramente cosciente di questo problema, e nella sua eccellente ricerca sulle culture dei cacciatori-raccoglitori ha riportato il seguente esempio di come un’interferenza della civiltà, in apparenza leggera, può portare ad effetti drammatici su una cultura primitiva: quando “dei missionari ben intenzionati distribuirono asce di ferro” agli Yir Yoront, aborigeni dall’Australia, il “mondo degli Yir Yoront quasi crollò. Gli uomini persero la loro autorità sulle mogli e comparve un divario generazionale”, e il sistema di scambio esteso su centinaia di miglia fu distrutto (Coon, p.276). I boscimani di Richard Lee sono forse l’esempio preferito per gli anarcoprimitivisti e gli antropologi di Sinistra, che vogliono presentare un’immagine politicamente corretta dei cacciatori-raccoglitori, e i boscimani di Lee erano tra gli ultimi “puri” cacciatori-raccoglitori che abbiamo qui menzionato. Forse non sono nemmeno stati sempre cacciatori-raccoglitori[15]. In ogni caso, probabilmente mantenevano lo scambio con i popoli agricoli e allevatori per qualche millennio (Havilland, p.167; Cashdan, pp.43-44). I boscimani Kung, che la Thomas conosceva, possedevano metallo ottenuto attraverso lo scambio (Thomas, p.94), e lo stesso evidentemente vale per i boscimani di Lee[16]. La Thomas scrive: “In questi dieci/venti anni da quando abbiamo iniziato il nostro lavoro, numerosi accademici [questo probabilmente comprende Richard Lee] hanno rivelato un’enorme interesse verso i boscimani. Molti di loro si sono recati in Botswana a visitare i gruppi di boscimani Kung, e per un periodo in Botswana il rapporto antropologi/boscimani sembrava essere quasi uno ad uno” (Thomas, p.284). Ovviamente, la presenza di così tanti antropologi poteva di per sé incidere sul comportamento dei boscimani. Negli anni Cinquanta (Turnbull, Forest People, pp.20, 21, 27 e le pagine non numerate alla fine del libro), quando li studiava Turnbull, ma ancor di più negli anni Venti e Trenta (Schebesta, I. Band, pp. 37, 46, 48) quando li studiava Schebesta, sembra che gli Mbuti non avevano avuto molti contatti diretti con la civilità, per questo Schebesta si è spinto persino ad affermare che “gli Mbuti sono, non solo da punto di vista razziale, ma anche psicologico e in termini di storia culturale, un fenomeno primordiale (Urphanomen) tra le razze e le popolazioni della Terra” (Ibid., p.404). Anche se gli Mbuti avevano iniziato ad essere alquanto affetti dalla civiltà già qualche anno prima che Schebesta li visitasse per la prima volta (Ibid., pp.141-142). E secoli prima gli Mbuti vivevano in stretto contatto (che include ampi rapporti di scambio) con i coltivatori non-civilizzati, sedentari (Ibid., passim. es., I. Band. p.87; II. Band, I. Teil, p.11). Dato che lo stesso Schebesta scrive: “La convinzione che gli Mbuti sono vissuti ermeticamente isolati dal resto del mondo è stata una volta per tutte accantonata” (Ibid., I. Band, p.92). Turnbull va oltre: “Non si può in alcun modo dire che le strutture [sociali] trovate tra gli Mbuti rappresentano un’originaria struttura pigmea di caccia e raccolta; anzi, probabilmente lungi da questo, perché le ripercussioni provocate dall’invasione della foresta da parte dei coltivatori sedentari sono state enormi” (Turnbull, Wayward Servants, p.16; vedi anche pp.88-89).

Benché alcuni eschimesi di Gontran de Poncins erano “più puri” degli altri (Poncins, pp.161-162), emerge che tutti hanno avuto almeno qualche scambio di beni con i bianchi. Se qualche lettore si prendesse la briga di rintracciare le prime fonti principali – forse qualche lavoro di Vilhjalmur Stefansson – come anche di avvicinarsi il più possibile ad una originaria e “pura” cultura eschimese, sarei interessato a leggere le sue scoperte. Ma è possibile che anche molto prima degli europei la cultura eschimese fosse stata contaminata da qualcosa che hanno ricevuto da una società di non-cacciatori; forse i loro cani da slitta non derivano dai cacciatori-raccoglitori (Coon, p.58-59).


Con i Siriono invece ci avviciniamo di più alla purità che con i boscimani, gli Mbuti o gli eschimesi di Poncins. I Siriono non possedevano neanche i cani[17], e nonostante praticassero la coltivazione, tuttavia limitata, gli antropologi considerano la loro cultura paleolitica (Antica età della pietra; Lauriston Sharp, in Holmberg, p.XII). Alcuni dei Siriono studiati da Holmberg avevano avuto pochi o addirittura nessun contatto con i bianchi prima dell’arrivo dello stesso (Holmberg, pp.XX-XXII, 1-3), e tra questi Siriono erano raramente presenti gli attrezzi europei, finché lo stesso Holmberg non li introdusse (Ibid., p.XXIII). I Siriono fabbricavano i propri attrezzi con i materiali locali spontaneamente trovati (Ibid., p.25-26). Inoltre, i Siriono erano così primitivi che sapevano contare solo fino a tre (Ibid., p.121). Ma ciononostante la cultura dei Siriono ha potuto subire contaminazioni attraverso il contatto con delle società più “avanzate”, dato che Holmberg riteneva che i Siriono erano “probabilmente i resti di una popolazione antica, sterminata, assorbita o inghiottita da invasori più civilizzati” (Ibid., p.10). Lauriston Sharp ha perfino suggerito che i Siriono avevano potuto subire una “degenerazione” [sic] “da condizioni tecniche più avanzate”, benché Holmberg respinge quest’idea, e lo stesso Sharp la considera “irrilevante” (Ibid., p.XII). Però i Siriono potevano aver subito indirettamente delle contaminazioni culturali dalla civiltà europea, dato che verosimilmente almeno qualcuna delle malattie di cui soffrivano, es. la malaria, sono state portate in America dagli europei[18]. Non sorprende che la maggior parte dei cacciatori-raccoglitori fin qui nominati – come anche quelli citati dagli anarcoprimitivisti e dagli antropologi politicamente corretti – hanno subito influenze dirette o indirette tramite i contatti con popoli agricoli e allevatori molto prima del loro primo contatto con gli europei, poiché eccetto l’Australia, Tasmania e l’estremo ovest e il nord del Nordamerica, “le popolazioni che sono rimaste fedele al modo di vita arcaico dei cacciatori-raccoglitori erano ridotte e sporadiche (Leakey, p.201, didascalia della mappa). Perciò, con la possibile eccezione per alcuni che vivevano su piccole isole, i popoli primitivi sono dovuti per forza entrare in qualche contatto con le popolazioni dei non-cacciatori-raccoglitori circostanti.

Probabilmente gli aborigeni australiani e i tasmaniani erano i cacciatori-raccoglitori più puri quando gli europei li incontrarono per la prima volta. L’Australia era l’unico continente abitato soltanto dai cacciatori-raccoglitori prima dell’arrivo dell’uomo bianco, e la Tasmania, l’isola a sud dell’Australia, era ancora più isolata. Però, la Tasmania poteva essere stata visitata dai polinesiani, e nel Australia settentrionale ci sono stati dei contatti limitati con l’Indonesia e la Nuova Guinea antecedente all’arrivo degli europei(Coon, nota p.25, p.67). Si può presumere che ci sono stati dei contatti esterni ancora prima, e che non doveva trattarsi di cacciatori-raccoglitori (Encycl. Brit., Vol.14, voce “Australia”, p.434). Pertanto, non abbiamo una prova decisiva che le culture dei cacciatori-raccoglitori sopravvissute fino ai tempi recenti non sono state seriamente contaminate dai contatti con i non-cacciatori-raccoglitori in un periodo antecedente della loro prima descrizione fatta dagli studiosi. Di conseguenza, è più o meno dubbia la validità dell’utilizzo degli studi sui cacciatori-raccoglitori per trarre poi delle conseguenze sui rapporti di genere tra i cacciatori-raccoglitori preistorici. E ogni conclusione tratta dai resti archeologici sulle relazioni sociali tra uomini e donne può essere solo altamente speculativa. Quindi, se vogliamo, possiamo scartare tutte le prove provenienti dalle descrizioni delle recenti culture dei cacciatori-raccoglitori, e in questo caso non sapremo quasi nulla sulle relazioni di genere tra i cacciatori-raccoglitori preistorici. O (con le riserve necessarie) possiamo accettare le prove provenienti dalle recenti società dei cacciatori-raccoglitori, e in questo caso le prove chiaramente indicano l’esistenza di un significato livello di dominio maschile. In entrambi i casi non ci sono prove per sostenere la tesi anarcoprimitivista che tutte o quasi tutte le società umane possedevano l’uguaglianza dei generi prima dell’avvento dell’agricoltura e dell’allevamento, circa dieci mila anni fa.

V

La nostra analisi delle relazioni di genere nelle recenti società dei cacciatori-raccoglitori ci aiuta a rivelare qualcosa sulla psicologia degli anarcoprimitivisti e dei loro cugini, gli antropologi politicamente corretti.

Gli anarcoprimitivisti e tanti antropologi politicamente corretti citano ogni prova possibile per sostenere che i cacciatori-raccoglitori possedevano l’uguaglianza dei generi, mentre sistematicamente ignorano l’abbondanza di prove di ineguaglianza dei generi trovate in studi sui cacciatori-raccoglitori eseguiti sul campo. Ad esempio, l’antropologo Haviland, nel suo libro Cultural Anthropology, afferma che “un’importante caratteristica della società dei cercatori-di-cibo [cacciatori-raccoglitori] è il suo egalitarismo” (Haviland, p.173). Lui riconosce che i due sessi possono avere degli status differenti in simili società, però sostiene che “le differenze di status per loro non implicano necessariamente l’ineguaglianza”, e che nelle “tradizionali società dei cercatori-di-cibo non c’è nulla che richiede l’esistenza di speciali differenze tra donne e uomini” (Ibid.). Se controllate le pagine elencate nell’indice di Haviland per i nomi “boscimani”, “Ju/‘hoansi (un altro nome per i boscimani Dobe), “eschimesi”, “Inuit” (un altro nome per gli eschimesi), “Mbuti”, “tasmaniani”, non troverete nessun riferimento alla violenza sulle mogli, sul matrimonio forzato, sui rapporti sessuali forzati, o su ogni altro segno del dominio maschile che ho citato sopra. Haviland non nega che queste cose potevano accadere. Non sostiene, ad esempio, che Turnbull ha meramente inventato le sue storie sulla violenza sulle mogli tra gli Mbuti, o che tali e tali prove dimostrano che le donne aborigene australiane non erano sottoposte al sesso forzato prima dell’arrivo degli europei. Lui semplicemente ignora queste questioni, come se non esistessero. E non perché Haviland non ne era consapevole. Ad esempio, fa citazioni dal libro di A.P. Elkin, The Australian Aborigines (Ibid., p.395), un’indicazione che non solo il libro gli era famigliare, ma lo riteneva addirittura una fonte attendibile. Eppure il libro di Elkin, da me su citato, offre numerose prove della tirannia maschile degli aborigeni australiani sulle proprie mogli (Elkin, pp.130-138) – prove che Haviland ha omesso. E’ piuttosto chiaro di cosa si tratta: L’eguaglianza dei sessi è il fondamentale dogma dell’ideologia mainstream della società moderna. Come membri di questa società altamente adattati, gli antropologi politicamente corretti credono nel principio dell’uguaglianza dei generi, qualcosa simile alla convinzione religiosa, e sentono il bisogno di darci una piccola lezione morale esponendo, per nostra ammirazione, gli esempi dell’uguaglianza dei generi che, in apparenza, prevaleva quando la razza umana era nello stato primordiale ed intatto. Questo ritratto di culture primitive nasce dal bisogno degli antropologi di riaffermare la propria fede, e non ha niente a che fare con una sincera ricerca della verità.


Prendiamo un altro esempio, avevo scritto a John Zerzan quattro volte, invitandolo a ritirare le sue affermazioni sull’uguaglianza dei generi tra i cacciatori-raccoglitori[19]. La risposta che ho ricevuto era vaga ed evasiva[20]. Mi farebbe piacere pubblicare qui le lettere che Zerzan che mi scrisse sul tema, così il lettore potrebbe giudicare da solo. Comunque, ho scritto a Zerzan chiedendogli il permesso di pubblicare le sue lettere, e lui mi ha rifiutato questo permesso (lettera dell’autore a John Zerzan, 11/05/2004; lettera di John Zerzan all’autore, 20/05/2004). Assieme alle sue lettere mi ha inviato anche fotocopie delle pagine di alcuni libri, che contengono affermazione vage e generali, che dovrebbero sostenere le sue dichiarazioni sull’eguaglianza dei generi; ad esempio, questa affermazione di Johh E. Pfeiffer, che non è né uno specialista né un testimone oculare dell’ambiente primitivo, bensì un divulgatore: “Per motivi sconosciuti il sessismo è arrivato con la sedentarietà e l’agricoltura, con la nascita della società complessa” (Pfeiffer, Emergence of Society, p.464?; non posso dare il numero di pagina con certezza perché è “tagliato” nella fotocopia che Zerzan mi ha inviato).

Zerzan mi ha mandato anche la fotocopia di una pagina del libro della Bonvillain, che contiene la seguente affermazione: “Nelle società delle bande dei cercatori [cacciatori-raccoglitori], il potenziale dell’uguaglianza dei generi è forse il maggiore...”[21] Però Zerzan non aveva incluso le fotocopie delle pagine in cui la Bonvillain dice che la dominazione maschile era evidente in alcune società dei cacciatori-raccoglitori, come tra gli eschimesi, o le pagine in cui lei stessa ci dà l’informazione che getta dubbi sulla sua affermazione riguardo all’eguaglianza dei generi tra i boscimani Dobe, come ho già discusso sopra.

Lo stesso Zerzan ammette che il materiale inviatomi non è “ovviamente definitivo”, ma tuttavia afferma che “in generale è pienamente rappresentativo” (lettera di John Zerzan all’autore, 02/03/03, nota). Quando ho continuato a chiedergli di ritirare le sue affermazioni (lettera dell’autore a John Zerzan, 02/05/03, pp.5-6), mi ha mandato una copia del suo saggio Futuro Primitivo, tratto dall’omonimo libro (Zerzan, Future Primitive and Others Essays). In questo saggio la maggior parte delle sue fonti sono citate solo con il cognome dell’autore e la data di pubblicazione; il lettore, si presume, dovrebbe cercare ulteriori informazioni nella tabella delle referenze, fornita altrove nel libro. Ma dato che Zerzan non mi ha inviato la copia della tabella delle referenze, non ho la possibilità di controllare le sue fonti. Gli ho fatto notare questo (lettera dell’autore a John Zerzan, 18/04/04, p.1), ma non mi ha ancora mandato la copia della sua tabella delle referenze. In ogni caso, c’è un buon motivo per sospettare che Zerzan è stato acritico nella selezione delle proprie fonti. Ad esempio, cita il tardo Laurens van der Post (Zerzan, Future Primitive, p.32), ma nel suo libro Teller of Many Tales, J.D.F. Jones, un ex ammiratore di Laurens van der Post, lo ha presentato come un bugiardo e imbroglione.

Anche se diamo un valore apparente, l’informazione nel Futuro Primitivo non ci offre nulla di solido sul tema delle relazioni dei generi. Affermazioni vaghe e generali sono di scarso uso. Come ho fatto notare prima, Bonvillain e Turnbull hanno fatto delle asserzioni generali sull’uguaglianza dei generi tra i boscimani e gli Mbuti, e queste asserzioni sono state contraddette dai fatti concreti, che gli stessi Bonvillain e Turnbull hanno riportato nei loro libri. Per quando riguarda gli altri temi, alcune delle affermazioni in Futuro Primitivo sono palesemente false. Giusto per fare alcuni esempi:

I. Zerzan, affidandosi su un “De Vries”, afferma che tra i cacciatori-raccoglitori il parto non è doloroso (ibid., p.33). Davvero? Ecco cosa dice la Thomas, descrivendo la sua esperienza personale tra i boscimani: “Le donne boscimane partoriscono in solitudine... eccetto se la ragazza partorisce per la prima volta, e allora può essere aiutata dalla propria madre, o se il parto è estremamente difficile la donna può chiedere di essere aiutata dalla madre o da un’altra donna. Una donna durante il parto può stringere i denti, può far uscire le lacrime o mordersi le mani fino a farle sanguinare, ma non deve mai piangere o mostrare la propria agonia” (Thomas, pp.156-157).

Dato che tra i cacciatori-raccoglitori la selezione naturale elimina i deboli e i carenti, e dato che il lavoro delle donne primitive le mantiene in buone condizioni fisiche, è probabilmente vero che il parto, solitamente, non era così difficile tra i cacciatori-raccoglitori come lo è per le donne moderne. Tra le donne Mbuti, secondo Schebesta, il parto era di solito facile (anche se questo non implica che era indolore). Dall’altra parte però il parto podalico era molto temuto e generalmente era fatale sia per la madre che per il figlio (Schebesta, I. Band, p.203).

II. Basandosi su un “Duffy”, Zerzan afferma che gli Mbuti “provano disgusto e ribrezzo per ogni forma di violenza tra le persone, e non la rappresentano mai nei loro balli o recite” (Zerzan, Future Primitive, p.36). Però, Hutereau e Turnbull hanno, indipendentemente, riportato storie da testimoni oculari secondo cui gli Mbuti invece rappresentavano la violenza tra le persone nelle loro recite (Turnbull, Wayward Servants, p.138 e nota 2). Cosa più importante, tra gli Mbuti era presente molta violenza reale. I libri di Turnbull, The Forest People e Wayward Servants, abbondano di racconti su risse e pestaggi. Per citare giusto uno dei numerosi esempi, Turnbull menziona una donna che ha perso tre denti in una rissa con un’altra donna per un uomo (Turnbull, Wayward Servants, p.206). Ho già menzionato le dichiarazioni di Turnbull circa la violenza sulle donne tra gli Mbuti.


Non è degno di nota il fatto che Zerzan apparentemente creda che i nostri antenati avevano la capacità di telepatia mentale[22]. Ma particolarmente significativa è la citazione di Zerzan da “Shanks and Tilley”: “Il senso dell’archeologia non è semplicemente interpretare il passato, ma cambiare il modo in cui il passato è interpretato per servire la ricostruzione sociale del presente” (Zerzan, Futuro Primitivo, p.15). Questo è di fatto un aperto sostegno alla proposta che gli archeologi dovrebbero adeguare i propri ritrovamenti agli scopi politici. Quale miglior prova potrebbe esserci della massiccia politicizzazione che ha avuto luogo nell’antropologia americana negli scorsi 35 o 40 anni? Prendendo in considerazione questa politicizzazione, qualsiasi cosa nella recente letteratura antropologica che illustra il comportamento degli uomini primitivi come politicamente corretto, deve essere guardato con massimo scetticismo.

Dopo aver citato a Zerzan alcuni degli esempi sull’ineguaglianza dei generi che ho discusso sopra, gli ho chiesto esplicitamente se ha “sistematicamente escluso quasi tutte le prove che danneggerebbero l’immagine idealizzata delle società dei cacciatori-raccoglitori”, che lui ha voluto presentare (lettera dall’autore a John Zerzan, 18/04/2004, p.6). Zerzan ha risposto che “non ha trovato molte fonti credibili che contraddirebbero la sua concezione (lettera da John Zerzan all’autore, 28/04/2004). Questa affermazione manca di credibilità. Alcuni degli esempi che ho citato a Zerzan (e discusso sopra) provenivano dai libri su cui lui stesso si è basato, come quelli di Bonvillain e Turnbull[23]. Ed è riuscito in qualche modo a non vedere in tutti questi libri tutte le prove che contraddicono le sue affermazioni. Dato che Zerzan ha letto molto sulle società dei cacciatori-raccoglitori, e dato che gli aborigeni australiani sono tra i più conosciuti cacciatori-raccoglitori, mi risulta molto difficile credere che non si è mai imbattuto in nessun racconto sul maltrattamento australiano delle donne. E non menziona mai queste storie – neppure allo scopo di confutarle.

Non è che per questo si deve necessariamente credere nella piena cosciente disonestà di Zerzan. Come disse Nietzsce: “La bugia più comune è quella con cui si mente a se stessi; il mentire ad altri è caso relativamente eccezionale.” (Nietzsche, p.186). In altre parole, l’autoinganno spesso precede l’inganno degli altri. Un importante fattore potrebbe essere quello ben conosciuto ai propagandisti di professione: le persone tendono a bloccare – a non percepire o a non ricordare – l’informazione che trovano sfavorevole (Encycl. Brit., Vol. 26, voce “Propaganda”, p.176). Dato che l’informazione che discredita l’ideologia di qualcuno è altamente sfavorevole, risulta che le persone tenderanno di bloccare una simile informazione. Un giovane anarcoprimitivista con cui ero in corrispondenza mi ha fornito un meraviglioso esempio su questo fenomeno. Mi scrisse: “non ci sono dubbi sulla persistenza [sic] del patriarcato in tutte le altre società oceaniche, ma nessuna sembra essere apparsa tra gli aborigeni [australiani] – Secondo “The Australian Aborigines” di A.P. Elkin le mogli non erano affatto tenute in matrimonio forzato” (lettera dell’editore di Species Traitor all’autore, 17/04/2003, p.6). Sembrava che il mio amico anarcoprimitivista abbia letto la discussione di Elkin sulla posizione della donne nella società degli aborigeni australiani. Ho citato sopra alcune delle pagine rilevanti del libro di Elkin, come quelle in cui dichiara che le donne aborigene australiane talvolta vivevano nel terrore del sesso forzato, che hanno subito durante alcune cerimonie. Ogni persona discretamente razionale che si prenderà la briga di leggere queste pagine (Elkin, pp.130-138) troverà difficile comprendere in che modo il mio amico anarcoprimitivista è riuscito a leggere questo materiale e poi affermare, in tutta serietà, che nessun patriarcato sembra essere apparso tra gli aborigeni australiani – a meno che il mio amico non abbia semplicemente bloccato nella propria mente l’informazione che trovò ideologicamente inaccettabile. Il mio amico non ha messo in dubbio l’esattezza dell’informazione di Elkin; infatti, lui si affidava a Elkin come ad un autorità. Lui è semplicemente rimasto immemore dell’informazione che rivela il patriarcato tra gli aborigeni australiani. Ma questa volta al lettore dovrebbe essere sufficientemente chiaro che quello che gli anarcoprimitivisti (e molti antropologi) cercano non ha nulla a che fare con una ricerca razionale delle verità sulle culture primitive. Loro invece hanno creato un mito.

VI

Ho già menzionato in diversi punti la presenza della violenza tra i cacciatori-raccoglitori nomadi. Esempi di violenza, inclusa quella letale, tra i cacciatori-raccoglitori sono numerosi. Ne cito giusto alcuni: “E’ stato pubblicato un racconto su una battaglia letale tra la banda dei tasmaniani dell’entroterra, che avevano l’accesso all’ocra, e la banda costiera che aveva accordato di scambiare le conchiglie con i prodotti della prima. La popolazione dell’entroterra aveva portato il suo ocra, ma la popolazione costiera era arrivata a mani vuote. Sono stati uccisi degli uomini perché è stato infranto un accordo su due materiali che non erano né commestibili né di nessun uso pratico. In altre parole, i tasmaniani erano semplicemente degli ‘esseri umani’, come tutti noi” (Coon, p.172). I tasmaniani costruivano le proprie lance “di due tipi di lunghezze... quelle più corte erano per la caccia, e quelle più lunghe per combattere” (Ibid., p.75). Tra i cacciatori-raccoglitori delle Isole Andamane “i torti si ricordavano, e la vendetta poteva essere fatta dopo. I razziatori o strisciavano attraverso la giungla o si avvicinavano sulle canoe. Attaccavano le proprie vittime a sorpresa, colpivano velocemente [con le frecce] tutti gli uomini e le donne incapaci di sfuggire, e portavano via tutti i bambini illesi, per adottarli...”; “Se abbastanza membri del gruppo sopravvivevano per ricostituire la banda potevano infine diventare abbastanza numerosi per cercare vendetta, e una lunga faida poteva sorgere. [La pacificazione] partiva dalle donne, dato che erano proprio loro a mantenere in vita le ostilità, istigando gli uomini.” (Ibid., pp.243-244)

In almeno alcuni gruppi di aborigeni australiani le donne certe volte fomentavano gli uomini alla violenza letale contro altri uomini (Massola, p.77). Tra gli eschimesi con cui Gontran de Poncins visse c’erano “molti assassinii”, e alcune volte era la donna che persuadeva l’uomo a uccidere un altro uomo (Poncins, p.115-120, 125, 162-165, 237-238, 244). Le pitture rupestri nelle caverne dei cacciatori-raccoglitori preistorici, nella Spagna orientale, mostrano due gruppi di uomini che si combattono con archi e frecce (Encycl. Brit., Vol. 28, voce “Spain”, p.18).

E si potrebbe andare avanti per molto. Ma non voglio dare l’impressione che tutti i cacciatori-raccoglitori erano violenti. Turnbull riferisce di numerose battaglie e pestaggi non letali tra gli Mbuti, ma nei libri che io ho letto non ha menzionato nessun caso di omicidio[24]. Questo ci suggerisce che la violenza letale era molto rara tra gli Mbuti, nell’epoca quando Turnbull li conosceva. Le donne Siriono talvolta entravano anche nei conflitti fisici, colpendosi con i bastoni, e c’era molta aggressività tra i bambini, con utilizzo addirittura dei bastoni o tizzoni come arma (Holmberg, pp. 127-127, 157, 209-210). Però gli uomini raramente utilizzavano le armi nei loro conflitti (Ibid., p.157), i Siriono non erano bellicosi (Ibid., p.11, 158-159). Nelle provocazioni estreme hanno ucciso alcuni bianchi e Indios cristianizzati (Ibid, pp.114, 159), ma tra i Siriono stessi l’omicidio intenzionale era praticamente sconosciuto (Ibid., p.152). Tra i boscimani che la Thomas conosceva le aggressioni di qualsiasi genere erano rare, sebbene lei sottolinea che questo non deve necessariamente valere per tutti i gruppi dei boscimani (Thomas, pp.284-287).


E’ importante anche comprendere che la violenza letale tra i primitivi non è neanche lontanamente paragonabile alle guerre moderne. Quando i primitivi combattono due piccole bande di uomini scagliano frecce o brandiscono le clave perché vogliono combattere; o perché stanno difendendo sé stessi, le proprie famiglie, il proprio territorio. Nel mondo moderno i soldati combattono perché sono forzati o, al meglio, perché hanno subito il lavaggio del cervello per credere in qualche folle ideologia, come il nazismo, socialismo, o quello che i politici americani hanno scelto di chiamare “libertà”. In ogni caso, il soldato moderno è una mera pedina, uno sciocco che non muore per la propria famiglia o per la propria tribù, bensì per i politici che lo sfruttano. Se è sfortunato forse non morirà, ma tornerà a casa così orrendamente mutilato che nessuna freccia o lancia sarebbe capace di provocare. Nel frattempo, a migliaia di non-combattenti sono stati uccisi o mutilati. Inoltre, l’ambiente viene saccheggiato, non solo nella zona di guerra, ma anche a casa, a causa di un consumo accelerato delle risorse naturali necessarie per alimentare la macchina da guerra. In paragone la violenza dell’uomo primitivo è relativamente innocua. Questo però non basta agli anarcoprimitivisti o agli odierni antropologi politicamente corretti. Non possono negare del tutto la presenza della violenza tra i cacciatori-raccoglitori, dato che la prova della sua esistenza è inoppugnabile. Ma loro espanderanno la verità per minimizzare la quantità della violenza nel passato umano. Merita riportare un esempio che illustra insensatezza di alcuni loro ragionamenti. Riferendosi al Homo habilis, un fisicamente primitivo antenato dell’uomo moderno, l’antropologo Haviland ha scritto: “Non ottenevano il loro pasto uccidendo animali vivi, ma dagli animali morti. Homo habilis si procurava la carne squartando le carcasse degli animali morti, piuttosto che andare a caccia dei vivi. Questo lo sappiamo grazie ai segni degli strumenti di pietra lasciati sulle ossa degli animali squartati, che di solito si trovano sopra i segni dei denti fatti dai carnivori. E’ chiaro che gli Homo habilis non era arrivato per primi alla loro preda.” (Havilland, p.77-78).

Ma, come sicuramente anche Havilland sapeva, molti o la maggioranza dei predatori si nutre sia di caccia che di carcasse. Ad esempio, orsi, leoni africani, faine, ghiottoni, lupi, coyote, volpi, sciacalli, iene, cani procioni asiatici, varani di Komodo, e certi avvoltoi, mangiano sia animali cacciati che carcasse[25]. Quindi, il fatto che Homo habilis si nutrisse di carcasse comunque non dimostra che non andava anche a caccia. Non capisco il motivo perché per noi dovrebbe essere così importante sapere se il nostro antenato semi-umano, di due milioni d’anni fa, era un assassino assettato di sangue, un vegetariano pacifico o qualcosa di mezzo. Il punto è semplicemente mostrare il tipo di ragionamento a cui certi antropologi faranno ricorso, nel loro sforzo di mostrare il passato umano più politicamente corretto. Dato che la correttezza politica ha distorto l’immagine non solo del passato umano, ma anche della natura in generale, si dovrebbe far notare che la violenza letale tra gli animali selvaggi non è confinata alla predazione dell’altra specie. Succede che un membro della specie uccida un altro membro della stessa specie. Ad esempio, è ben risaputo che gli scimpanzé spesso uccidono altri scimpanzé (vedi es. rivista Time, 19/08/2002, p.56). Gli elefanti certe volte si uccidono tra di loro nei combattimenti, e questo vale anche per i cinghiali (Encycl. Brit., Vol. 23, voce “Mammals”, pp. 436, 449-450). Gli uccelli marini chiamati Sula Fosca depongono le due uova nello stesso nido. Dopo che le uova si sono schiuse uno dei piccoli attacca l’altro, costringendolo ad uscire dal nido, quindi a morire (Sibling Desperado in Science News, Vol. 163, 15 febbraio 2003). I varani di Komodo talvolta si mangiano tra di loro (Encycl. Brit., Vol. 6, voce “Komodo dragon”, p.945), ed esistono prove che il cannibalismo era praticato da certi dinosauri (Ibid., Vol. 17, voce “Dinosaurus”, p.319). (Le prove sul cannibalismo tra gli uomini preistorici sono controverse; Ibid., Vol. 6, voce “Krapina remains”, pp. 981-982; Vol. 26, voce “Prehistoric Peoples and Cultures, p.66).

Voglio sottolineare che non è mia intenzione esaltare la violenza. Preferisco vedere la persone (e animali) che vivono in equilibrio tra di loro. Voglio solo esporre l’irrazionalità dell’immagine politicamente corretta degli uomini primitivi e della natura selvaggia.

VII

Un importante elemento del mito anarcoprimitivista è credere che nelle società dei cacciatori-raccoglitori non era presente la competizione, ma che invece erano caratterizzate dalla condivisione e cooperazione. I primi lavori di Collin Turnbull sui pigmei Mbuti sembrano abbastanza sinceri, ma il suo lavoro attraverso gli anni diventava sempre più politicamente corretto[26]. Nel 1983 (18 e 21 anni dopo, rispettivamente, Wayward Servants e The Forest People) Turnbull scrisse che i bambini non conoscevano giochi competitivi (Turnbull, Change and Adaption, p.44), e dopo aver parlato dell’alto valore che la moderna società attribuisce alla “competizione” e alla “indipendenza economica” (Ibid., p.154), la mise in contrasto con “i ben sperimentati valori primitivi consuetudinari: interdipendenza, cooperazione e affidamento più sulla comunità che su sé stessi...” (Ibid., p.158).

Però, secondo i primi lavori dello stesso Turnbull, i conflitti fisici erano usuali tra gli Mbuti (Turnbull menziona i conflitti fisici in Forest People, pp.110, 122-123, e in Wayward Servants, pp.188, 191, 201, 205, 206, 212). Se un conflitto fisico non è una forma di competizione, cos’è? Difatti, è chiaro che gli Mbuti erano un popolo molto litigioso e oltre ai conflitti fisici erano presenti anche molte dispute verbali (Turnbull, Forest People, pp.33, 107, 110; Wayward Servants, pp.105, 106, 113, 157, 212, 216). Parlando in generale, ogni disputa, sia essa fisica o verbale, è una forma di competizione: gli interessi di una persona entrano in conflitto con quelli dell’altra, e il loro litigio è un sforzo di far prevalere i propri interessi sulle spese dell’altra. Le gelosie degli Mbuti sono altre prove degli impulsi competitivi (Turnbull menziona le gelosie in Wayward Servants, pp.103, 118, 157).

Le due cose per cui gli Mbuti competevano erano compagni e cibo. Ho già menzionato il caso di due donne che combattevano per un uomo (Turnbull, Wayward Servants, p.206), e sembra che i litigi per il cibo erano usuali (Turnbull, Forest People, p.107; Wayward Servants, pp. 157, 191, 198, 201). Invano Turnbull nei suoi primi lavori descrive gli Mbuti come degli “individualisti” (Turnbull, Wayward Servants, p.183). Esistono prove abbondanti sulla competitività e/o l’individualismo tra gli uomini primitivi. I Nuer (pastoralisti africani), le tribù germaniche pagane, gli Indiani dei Caraibi, i Siriono (che vivevano soprattutto di caccia e raccolta), i Navajo, gli Apache e gli Indiani nordamericani sono tutti stati descritti esplicitamente come degli “individualisti” (Evans-Pritchard, p.90; Davidson, pp.10, 205; Reichard, pp. XXIII, XXI, XXXVII; Debo, p.71; Wissler, p.287; Holmberg, pp.151, 259, 270, nota 5; Encycl. Brit., Vol. 2, voce “Carib”, p.866; Vol. 13, voce “American Peoples, Native”, p.380). Però “l’individualismo” è una parola vaga, che può significare cose differenti a popoli differenti, quindi è più utile guardare ai fatti definiti che sono stati riportati. Alcuni dei lavori che ho citato sopra sostengono con i fatti il loro utilizzo del termine “individualista” per i popoli menzionati. Holmberg scrisse:

“Quando un Indiano [Siriono] raggiunge l’età adulta mostra un individualismo e un’apatia verso i propri compagni davvero notevole. L’apparente indifferenza di un individuo verso un altro – anche all’interno della famiglia – non ha smesso mai di stupirmi, mentre vivevo con i Siriono. Spesso gli uomini partivano per la caccia da soli – senza neanche un arrivederci – e rimanevano lontano dalla banda per settimane senza minima preoccupazione da parte dei loro compagni di tribù o delle mogli...”. “L’indifferenza verso i compagni si manifesta in tutte le occasioni. Una volta Ekwataia andò a caccia. Al suo ritorno il buio lo colse a circa cento metri dal campo. La notte era buia come la pece ed Ekwataia perse la sua strada. Iniziò a chiamare aiuto, che qualcuno gli porti del fuoco o lo guidi verso il campo con i richiami. Nessuno prestò attenzione alle sue richieste. Dopo circa un’ora e mezzo i suoi lamenti cessarono e sua sorella Seaci disse: ‘Probabilmente l’ha preso un giaguaro’. Quando Ekwatia il mattino dopo fece ritorno, mi disse di aver trascorso la notte seduto sul ramo di un albero per non essere mangiato dai giaguari.” (Holmberg, pp.259-260) Holmberg ripetutamente rimarca il carattere non cooperativo dei Siriono, e dice che quelli diventati disabili per l’età o per malattia vengono semplicemente abbandonati dagli altri (Ibid., pp. 93, 102, 224-226, 228, 256–57, 259, 270 nota 5). Tra gli altri popoli primitivi l’individualismo presenta altre forme. Ad esempio, tra la maggior parte degli Indiani dell’America settentrionale la guerra era un’impresa decisivamente individuale. “Gli Indiani, essendo assai individualisti e spesso combattendo più per gloria personale che per l’utilità del gruppo, non hanno mai sviluppato una scienza della guerra” (Leach, p.130). Secondo l’Indiano Cheyenne, Wooden Leg [“gamba di legno”, n.d.t.]: “Quando veramente iniziava una battaglia c’era il si salvi chi può. Non c’erano raggruppamenti disposti, movimenti sistematici stabiliti, o un muoversi ordinato. I guerrieri si mischiavano indistintamente, ognuno guardava se stesso, o aiutava l’amico se necessitava di questo aiuto e se l’inclinazione personale proprio in quel momento tendeva verso l’aiuto amichevole. Le tribù degli Sioux combattevano le loro battaglie come una banda di individui, proprio come noi combattevamo le nostre, e proprio come tutto il resto degli Indiani che io ho conosciuto” (Marquis, p.119-122).


Durante la prima metà del ventesimo secolo Stanley Vestal intervistò molti Indiani delle praterie che ancora ricordavano i giorni passati. Secondo lui:

“Non si può ripetere in continuazione che – eccetto nella difesa dei propri campi – l’Indiano era assolutamente indifferente verso l’esito generale della battaglia: lo interessavano solo i propri colpi. Di volta in volta i vecchi mi dicevano, discutendo di una data battaglia: ‘Non è successo niente quel giorno’, volendo semplicemente dire che l’oratore non era in grado di contare i colpi” (Vestal, p.60); “Gli Indiani delle pianure non potevano ingaggiare una guerra pianificata. Non erano disciplinati. Nelle rare occasioni quando possedevano un piano, qualche ambizioso giovanotto era sicuro che avrebbe lanciato un attacco prematuro” (Ibid., p.179).

Paragoniamo questo con la guerra moderna: le truppe si muovono obbedienti secondo piani accuratamente elaborati; ogni uomo ha un compito specifico da eseguire in collaborazione con gli altri uomini, e non lo esegue per gloria personale, ma per il vantaggio di tutto l’esercito. Perciò, nella guerra è l’uomo moderno ad essere cooperativo e il primitivo, generalmente parlando, individualista.

L’individualismo primitivo non è confinato alla guerra. Tra gli Indiani dell’America settentrionale subartica dove c’erano i cacciatori-raccoglitori c’era un “rapporto individualista con il sovrannaturale”, “un’indipendenza personale” e un “alto valore dell’autonomia personale” (Encycl. Brit., Vol.13, voce “American Peoples, Native”, pp.351–52, 360). Ai bambini degli aborigeni australiani veniva “insegnato ad essere indipendenti” (Massola, p.72). Tra gli Indiani Woodland degli Stati Uniti orientali “veniva dato un grande risalto all’indipendenza personale e alla capacità individuale” (Encycl. Brit., Vol.13, voce “American Peoples, Native”, pp.384, 386), e i Navajo “insistevano sull’indipendenza personale” (Reichard, p.XXXIX). I Nuer dell’Africa esaltavano la virtù di “testardaggine” e di “indipendenza”; “La loro unica prova di carattere è l’autosufficienza” (Evans-Pritchard, pp.90, 181-183). Ci sono tantissime testimonianze di competizione tra i primitivi. Oltre gli Mbuti, c’erano anche altri cacciatori-raccoglitori che gareggiavano per i compagni o per il cibo. “Non si può rimanere a lungo con i Siriono senza notare che i litigi e le dispute sono onnipresenti” (Holmberg, p.153). La maggior parte dei litigi “scaturiscono direttamente dal cibo”, ma anche la gelosia sessuale conduce a risse e a dispute tra i Siriono” (ibid., pp.260-261). Poncins riporta il caso di un eschimese che uccise un altro per avergli portato via la moglie, e sostiene che ogni eschimese sarebbe capace di uccidere per impedire la sottrazione della moglie (Poncins, pp.125, 244).

Nonostante l’osservazione di Turnbull che i bambini Mbuti non presentano giochi competitivi, alcuni Mbuti adulti giocavano al tiro alla fune, che ovviamente è un gioco competitivo (Schebesta, II. Band, I. Teil, p.241); e anche certi altri popoli primitivi avevano giochi competitivi. Massola menziona i giochi di guerra tra gli aborigeni australiani, e il gioco con la palla in cui “il ragazzo che prendeva la palla più volte era considerato il vincitore” (Massola, pp.78-80). Il gioco del lacrosse deriva dagli Indiani Algonkin (Wissler, pp.223, 304). I bambini Navajo di entrambi i sessi facevano le gare podistiche (Reichard, p.265), e tra gli Indiani delle pianure quasi tutte i giochi dei ragazzi erano competitivi (Encycl. Brit., Vol. 13, voce “American Peoples, Native’, p.381). L’Indiano Cheyenne, Wooden Leg, descrive alcuni degli sport competitivi che i suoi uomini praticavano: “Gare di cavalli, gare podistiche, lotta libera, tiro a segno con i fucili o con le frecce, lancio della freccia con mano, nuoto, salto e gare simili” (Marquis, p.39). I Cheyenne anche gareggiavano a guerra, caccia e “a tutte le attività utili” (Ibid., pp.64, 66, 120, 277).

Richard E. Leakey cita in questo modo Richard Lee: “La condivisione profondamente pervade il comportamento e i valori dei cercatori !Kung [boscimani]. La condivisione è una cosa centrale nella vita delle società cercatrici”. Leakey aggiunge: “Questa etica non è confinata ai !Kung: è una caratteristica dei cacciatori-raccoglitori in generale” (Leakey, p.107). Ovvio, anche noi condividiamo. Noi paghiamo le tasse. I nostri soldi delle tasse sono usati per aiutare le persone povere o i disabili attraverso i programmi dell’assistenza pubblica e per svolgere altre attività pubbliche che dovrebbero promuovere il benessere generale. I datori di lavoro condividono con i loro lavoratori pagandoli con i salari. Però, eh no!, risponderete, noi condividiamo solo perché siamo obbligati. Se cerchiamo di evadere il fisco andremo in prigione; se un datore di lavoro offre salari e benefici insufficienti nessuno lavorerà per lui, o forse avrà problemi con il sindacato o con le leggi sul salario minimo. La differenza è che i cacciatori-raccoglitori condividono volontariamente, per amore, a cuore aperto e generoso... giusto?


Non esattamente. Così come la nostra condivisione è governata dalle leggi sulle tasse, i contratti sindacali, così la condivisione nelle società dei cacciatori-raccoglitori è normalmente governata da “rigide regole procedurali” che “devono essere seguite per mantenere la pace” (Coon, pp.176-177; Cashdan, pp.37-38, parla di “precise” o “esplicite” regole sulla divisione della carne tra gli aborigeni australiani, i pigmei Mbuti e i boscimani Kung). Molti cacciatori-raccoglitori erano semplicemente riluttanti a condividere il loro cibo, come siamo noi a pagare le nostre tasse, e volevano solamente assicurarsi di non ricevere meno di quello che le regole li assegnavano. Tra i boscimani di Richard Lee: “La distribuzione [della carne] viene eseguita con gran cura, secondo un’insieme di regole. Un’impropria distribuzione della carne può essere la causa di un aspro litigio tra i famigliari” (Richard B. Lee, citato da Bonvillain, p.20). Benché tra gli eschimesi Tikerarmiut le regole per la distribuzione della carne di balena “sono scrupolosamente seguite, ci possono comunque essere delle rumorose argomentazioni” (Coon, p.125). I Siriono possiedono dei tabù sul cibo che potevano servire da regole per la distribuzione della carne, ma i tabù venivano molto spesso trascurati (Holmberg, pp.79-81). Nonostante i Siriono condividevano il cibo, lo facevano con l’estrema riluttanza (Ibid., pp.87-89, 154-156): “Le persone si lamentano e litigano continuamente sulla distribuzione di cibo. Una notte Enia mi disse: ‘Quando qualcuno si avvicina alla casa, le donne nascondono la carne. Le donne, per nascondere la carne, la inseriscono addirittura nelle proprie vagine’” (Ibid., pp.154-155). “Se, per caso, una persona condivide il cibo con un parente, ha il diritto di aspettarsene altra in ritorno. La reciprocità è quasi sempre obbligatoria, e talvolta anche ostile. In verità, la condivisione raramente si svolge senza una certa quantità di mutua diffidenza e dissapori” (Ibid., p.151). Gli Mbuti anche hanno delle regole per dividere la carne (Cashdan, p.37; Turnbull, Forest People, pp.96-97; Schebesta, II. Band, I. Teil, pp.96-97), ma c’erano “più delle volte molti litigi sulla divisione della cacciagione (Turnbull, Forest People, p.107). “Dopo che l’animale è stato ucciso deve essere diviso al ritorno nel campo. Questo non vuol dire che ciò avviene senza litigi o acredini. Al contrario, le discussioni che scoppiano dopo il ritorno dei cacciatori nel campo sono spesso lunghe e rumorose”[27]. “Quando i cacciatori ritornano al campo si possono vedere uomini e donne, ma particolarmente donne, furtivamente nascondere una parte del bottino sotto le foglie dei loro tetti o nei vicini recipienti” (Turnbull, Wayward Servants, p.120); “Sarebbe insolito se una donna Mbuti non nascondesse una porzione dell’ottenuto in caso fosse costretta a dividerlo con gli altri (Ibid., p.198). Il fatto che alcuni cacciatori-raccoglitori spesso litigavano sulla distribuzione mette in discussione l’affermazione anarcoprimitivista sulla “abbondanza primitiva”. Se era così facile ottenere il cibo, allora perché scoppiavano litigi intorno ad esso? Va anche osservato che le regole generali sulla divisione tra i cacciatori-raccoglitori venivano applicate soprattutto sulla carne. C’era una relativamente scarsa condivisione del cibo vegetale (Coon, p.176; Cashdan, p.38; Bonvillain, p.20; Turnbull, Wayward Servants, p.167; Encycl. Brit., Vol. 14, voce “Australia”, p.438), nonostante il cibo vegetale spesso costituiva gran parte dell’alimentazione[28].

Ma non voglio dare l’impressione che tutti i popoli primitivi o tutti i cacciatori-raccoglitori erano degli individualisti radicali, che collaboravano e condividevano solo sotto l’obbligo. I Siriono, nei termini del loro egoismo, durezza e non-collaborazione, erano un caso estremo. Tra la maggior parte dei popoli primitivi, di cui ho letto, sembra ci sia stato un ragionevole equilibrio tra la collaborazione e la competitività, la condivisione e l’egoismo, e tra l’individualismo e spirito comunitario. Affermando che i cacciatori-raccoglitori solitamente non dividevano il cibo vegetale, i frutti di mare e simile, all’infuori della famiglia, Coon anche segnala che questo tipo di alimenti poteva difatti essere condiviso con delle altre famiglie se queste avevano fame (Coon, p.176). Nonostante i loro tratti individualisti, per i Cheyenne (e probabilmente anche per gli altri Indiani delle pianure) la generosità aveva un alto valore (es. la condivisione volontaria, Marquis, p.159), e lo stesso vale anche per i Nuer (Evans-Pritchard, p.90). Gli eschimesi con i quali Gontran de Poncins viveva, erano così generosi nella condividere i loro averi che Poncins descrive la loro comunità come “quasi-comunista”, e dichiara che “facevano tutto insieme, senza tracce di egoismo” (però non dice che gli eschimesi si aspettavano che ogni regalo venisse ripagato infine con un altro regalo; Poncins, pp.78-79, 121). L’importanza che gli Mbuti davano alla collaborazione nella caccia e in certe altre attività è stata descritta da Turnbull (Turnbull, Wayward and Servants, es. p. 105), che afferma che non condividere nei tempi di bisogno rappresentava un “crimine” (Ibid., pp.199-200, nota 5), e che gli Mbuti condividevano in certe occasioni anche quando non esisteva il bisogno di condividere (Ibid., p.113).

In contrasto con la durezza mostrata dai Siriono, gli anziani o gli storpi tra gli Mbuti erano trattati con cura e rispetto, che derivava soprattutto dall’affetto e da un senso di responsabilità (Ibid., p.153). Gli eschimesi di Poncins avrebbero lasciato morire i deboli o gli anziani se prendersi cura di loro diventava troppo difficile, ma lo dovevano fare a malincuore, perché finché avevano gli anziani con loro “badavano ai vecchi lungo il viaggio, tornavano molto spesso alla slitta per vedere se gli anziani avevano abbastanza caldo, se si sentivano comodi, se avessero fame e volessero un po’ di pesce” (Poncins, p.237).

Come si potrebbe continuare a citare gli esempi di egoismo, di competizione e di aggressività tra i cacciatori-raccoglitori, si potrebbe allo stesso modo continuare a citare gli esempi di generosità, di collaborazione e di amore tra gli stessi. Ho messo in risalto soprattutto gli esempi di egoismo, di competizione e di aggressività solo per la necessità di sfatare il mito anarcoprimitivista che dipinge la vita dei cacciatori-raccoglitori come una specie di Giardino dell’Eden politicamente corretto.

In ogni caso, quando Colin Turnbull contrappone la moderna “competizione”, “l’indipendenza” e “l’autosufficienza” agli “sperimentati valori primitivi di interdipendenza, di collaborazione e spirito comunitario”, è semplicemente ridicolo. Come abbiamo già visto, questi ultimi non rappresentano delle caratteristiche particolari delle società primitive. Se riflettiamo un po’ capiremo che nella società moderna l’indipendenza è diventata praticamente impossibile, mentre la collaborazione e la interdipendenza sono state sviluppate fino ad un livello infinitamente maggiore che poteva mai esistere nelle società primitive.


La nazione moderna è un sistema vasto e altamente organizzato, in cui ogni parte dipende da ogni altra parte. Le fabbriche e le raffinerie di petrolio non potrebbero funzionare senza l’elettricità fornita dalle centrali elettriche, le centrali elettriche hanno bisogno dei pezzi di ricambio prodotti nelle fabbriche, le fabbriche richiedono materie che non possono essere trasportate senza il carburante fornito dalle raffinerie di petrolio. Le fabbriche, le raffinerie e le centrali elettriche non potrebbero funzionare senza i lavoratori. I lavoratori hanno bisogno di cibo prodotto nelle coltivazioni, le coltivazioni richiedono carburante e pezzi di ricambio per i trattori e i macchinari, che non possono funzionare senza le raffinerie e le fabbriche, e così avanti. E neanche la nazione moderna non è più un’unità autosufficiente. Ogni paese dipende sempre di più dall’economia globale. Dato che l’individuo moderno non potrebbe sopravvivere senza i beni e i servizi fornitigli dalla macchina mondiale tecno-industriale, diventa assurdo oggi parlare dell’indipendenza. Per tenere tutta la macchina in funzione è necessario un vasto, elaboratamente-coreografato sistema di collaborazione. Le persone devono arrivare ai loro posti di lavoro nei tempi precisamente stabiliti, e svolgere i loro lavoro in accordo con le regole e procedure dettagliate, per assicurarsi che ogni attività dell’individuo si concatena con quella altrui. Per far scorrere il traffico senza difficoltà, incidenti o congestioni, le persone devono collaborare aderendo a numerose regole del codice stradale. Gli appuntamenti devono essere rispettati, le tasse pagate, le autorizzazioni ottenute, le leggi osservate ecc., ecc., ecc. Non è mai esistita una società primitiva con un sistema di collaborazione così vasto ed elaborato, o che regolava il comportamento dell’individuo fino a questi dettagli. Date queste condizioni, affermare che la società moderna è caratterizzata dall’“indipendenza” e dall’“autosufficienza”, in contrasto con la “interdipendenza” e la “collaborazione” primitiva” risulta bizzarro.

Si potrebbe rispondere che gli uomini moderni collaborano con il sistema solo perché sono obbligati, mentre la collaborazione dell’uomo primitivo è più o meno volontaria. Questo naturalmente è vero, e il motivo ne è chiaro. Precisamente perché il nostro sistema di collaborazione è così altamente sviluppato, così eccessivamente esigente e perciò così oneroso per l’individuo, che solo poche persone lo accetterebbero, se non avessero paura di perdere il proprio lavoro, pagare la multa o finire in carcere. La collaborazione dell’uomo primitivo può essere parzialmente volontaria per il semplice motivo che la sua vita richiede molto meno collaborazione al confronto della vita dell’uomo moderno. Quello che dà ad una società moderna una superficiale parvenza di individualismo, indipendenza e autosufficienza è la scomparsa dei legami che in passato legavano gli individui in piccole comunità. Oggi i nuclei famigliari presentano di solito pochi legami con i vicini della porta accanto, o anche con i parenti. La maggior parte delle persone ha amici, ma oggi gli amici spesso vengono usati solo come svago. Tra gli amici, di solito, non si collabora in attività economiche o in altre serie cose pratiche, né si offre molta reciproca sicurezza fisica o economica. Se diventi disabile, non aspettarti che i tuoi amici ti sosterranno. Dipendi dall’assicurazione o dall’assistenza sociale. Ma i legami di collaborazione e di mutua assistenza, che nel passato legavano il cacciatore-raccoglitore alla propria banda, non sono semplicemente scomparsi nel nulla. Sono stati sostituiti dai legami che ci legano a tutto il sistema tecno-industriale, e ci legano con maggior forza dei legami che univano il cacciatore-raccoglitore alla propria banda. E’ assurdo dire che una persona è indipendente, autonoma o individualista quando appartiene ad una collettività composta da centinaia di milioni di persone, e non quando fa parte di una comunità di quaranta o cinquanta individui. Lo stesso vale per la competizione, è molto più controllata nella nostra società di quello che è stata nelle società più primitive. Come abbiamo già visto, due donne Mbuti possono competere per un uomo anche a pugni; possono competere per il cibo, rubandone un po’ o litigando sulla divisione della carne. Gli uomini degli aborigeni australiani combattono per le donne con delle armi letali (Coon, p.260). Ma una così diretta e incontrollata competizione non può essere tollerata nella società moderna, perché potrebbe disgregare l’elaborato e ben regolato sistema di collaborazione. Perciò la nostra società ha elaborato degli sfoghi innocui, ma anche utili, per gli impulsi competitivi. Gli uomini oggi non competono per le donne, e viceversa, lottando. Gli uomini competono per le donne guadagnando denaro e guidando macchine di lusso; le donne competono per gli uomini coltivando fascino e apparenza. I dirigenti delle aziende competono combattendo per le promozioni. In questo contesto la competizione tra i dirigenti è uno strumento che li incoraggia a collaborare con l’azienda. Si può tranquillamente rispondere che gli sport competitivi nella società moderna funzionano come una valvola di sfogo per gli impulsi aggressivi e competitivi, che avrebbero delle serie conseguenze disgregative se fossero espressi allo stesso modo delle numerose popolazioni primitive. Ovviamente, il sistema ha bisogno di persone collaborative, obbedienti e disposte ad accettare la dipendenza. Come disse lo storico Von Laue: “La società industriale, dopotutto, richiede una docilità incredibile alla base della sua libertà [sic]” (Von Laue, p.202). Per questo motivo la comunità, la collaborazione e l’aiuto reciproco si sono profondamente radicati come valori fondamentali della società moderna. Ma cosa succede con i valori basati, in apparenza, sull’indipendenza, l’individualismo e la competizione? Mentre le parole come “comunità”, “collaborazione” e “aiuto” nella nostra società sono inequivocabilmente accettate come “positive”, le parole “individualismo” e “competizione” sono in tensione, a doppia lama, che devono essere usate con cura, se si vuole evitare il rischio di una reazione negativa. Per illustrare con un aneddoto: quando ero in settima o ottava classe il nostro insegnante, che era conosciuto per essere un po’ rude con i ragazzi, chiese ad una ragazza di dirgli il nome del paese in cui vive. La ragazza non era molto sveglia e non sapeva esattamente il nome degli Stati Uniti d’America, quindi rispose semplicemente: “Gli Stati”. “Gli Stati Uniti di cosa?”, chiese l’insegnante. La ragazza rimase seduta con un’espressione vacua. L’insegnante continuò a tormentarla finché lei non osò rispondere: “Gli Stati della Comunità?”.

Perché “comunità”? Perché, ovviamente, “comunità” è una parola molto positiva, il tipo di parola che un bambino userebbe per ottenere dei buoni punteggi dall’insegnante. Ci sarebbe un bambino che in una simile situazione risponderebbe “Gli Stati Uniti della Competizione” o “Gli Stati Uniti dell’Individualismo”? Non proprio!


E’ di solito dato per scontato che le parole come “comunità”, “collaborazione”, “aiuto” e “condivisione” rappresentano qualcosa di positivo, mentre “l’individualismo” è raramente usato nei media ufficiali o nel sistema educativo solo in senso positivo. “Competizione” è invece usata un po’ più spesso in questo senso, ma solitamente nei contesti specifici in cui la competizione è utile (o almeno innocua) al sistema. Ad esempio, la competizione è considerata opportuna nel mondo degli affari, perché rimuove le aziende inefficienti, stimola le altre ad essere più efficienti e promuove il progresso economico e tecnologico. Ma solo la competizione controllata – cioè, la competizione che si attiene alle regole che la mantengono innocua o utile – viene di solito considerata favorevole. E quando è ritenuta positiva allora viene sempre giustificata in termini di valori comunitari. Quindi, la competizione d’affari è considerata positiva perché promuove l’efficacia e il progresso, che, si presume, sono positivi per l’intera comunità. “L’indipendenza” è anche una parola “positiva” solo quando viene usata in certi modi. Ad esempio, quando si dice che persone disabili dovrebbero essere più “indipendenti”, nessuno mai pensa che dovrebbero essere indipendenti dal sistema. Si intende solamente che dovrebbero avere degli impieghi remunerativi, così non graverebbero sulle spese del sistema. Una volta ottenuto il lavoro continuano ad essere dipendenti dal sistema come lo sono stati in precedenza quando vivevano di assistenza sociale, e hanno molto meno libertà per decidere come spendere il proprio tempo libero. Allora perché gli antropologi politicamente corretti e i loro simili contrappongono i cosiddetti valori primitivi di “comunità”, “collaborazione”, “condivisione” e “interdipendenza” a quelli che loro dichiarano essere i valori moderni di “competizione”, “individualismo” e “indipendenza”? Sicuramente una parte importante della risposta sta nel fatto che le persone politicamente corrette hanno assorbito anche troppo bene i valori che la propaganda del sistema li ha insegnato, inclusi i valori di “collaborazione”, “comunità”, “aiuto” e così avanti. Un altro valore che hanno assorbito dalla propaganda è quello della “tolleranza”, che nel contesto di interculturalità tende ad essere tradotto in approvazione accondiscendente delle culture non-occidentali. Perciò il ben-socializzato antropologo moderno si trova di fronte ad un conflitto: dato che si suppone essere tollerante, trova assai difficile dire qualcosa di negativo sulle culture primitive. Ma le culture primitive offrono numerosi esempi di comportamento che sono decisamente negativi dal punto di vista dei moderni valori occidentali. Quindi, l’antropologo deve censurare molto del comportamento “negativo” nelle sue descrizioni di culture primitive, per evitare di farle vedere in una luce negativa. In più, a causa della sua stessa eccessiva profonda socializzazione, l’antropologo politicamente corretto ha bisogno di ribellarsi[29]. Esso è ben troppo socializzato per abbandonare i valori fondamentali della società moderna, perciò esprime la propria ostilità verso questa società distorcendo i fatti, per far sembrare che la società moderna devia dai suo propri valori dichiarati in misura molto più ampia che in verità lo fa. Per questo motivo l’antropologo finisce ad esaltare gli aspetti competitivi e individualistici della società moderna, mentre in un modo grossolano minimizza questi stessi aspetti nelle società primitive.

Naturalmente, c’è molto di più in questo, e io non posso affermare di comprendere pienamente la psicologia di queste persone. Sembra ovvio, ad esempio, che l’immagine politicamente corretta dei cacciatori-raccoglitori è in parte motivata da un spinta a costruire un ritratto di un mondo puro e innocente esistente negli albori del tempo, analogo ai Giardini dell’Eden, però le basi di questa spinta mi rimangono oscure.

VIII

E per quanto riguarda il rapporto dei cacciatori-raccoglitori con gli animali? Sembra che alcuni anarcoprimitivisti pensano che gli animali e gli uomini una volta “coesistevano”, e nonostante il fatto che gli animali anche oggi talvolta mangiano gli umani, “questi attacchi degli animali sono in confronto rari” e “questi animali non hanno cibo sufficiente a causa dell’invasione della civiltà, e agiscono più per estrema fame e disperazione. Anche a causa della nostra ignoranza sull’agire e sentire animale, mancanza di foglie o altri segni che i nostri antenati [sic] conoscevano, ma che la nostra domesticazione oggi ci nega”[30]. E’ sicuramente vero che le conoscenze del cacciatore-raccoglitore sui comportamenti animali lo rendevano più sicuro nella natura selvaggia, in confronto all’uomo moderno. E’ anche vero che gli attacchi degli animali selvaggi contro gli uomini sono ed erano relativamente infrequenti, probabilmente perché gli animali hanno imparato che è difficile e rischioso cacciare gli umani. Però, in molti ambienti gli animali rappresentavano un significante pericolo ai cacciatori-raccoglitori. Il cacciatore Siriono era “sporadicamente esposto agli attacchi dei giaguari, coccodrilli e vipere” (Holmberg, p.249; vedi anche pp.61, 117, 260). I leopardi, i bisonti delle foreste e i coccodrilli erano una vera minaccia per gli Mbuti (Turnbull, Forest People, pp.35, 58, 79, 179; Wayward Servants, pp.165, 168; Schebesta, I. Band, p.68; Coon, p.71). Dall’altra parte, è da notare che i Kadar (i cacciatori-raccoglitori dell’India) raccontarono di avere “una tregua con le tigri, le quali nel passato li avevano lasciati completamente in pace” (Coon, p.156). Questo è l’unico caso di questo tipo che conosco. I cacciatori-raccoglitori rappresentavano un pericolo molto maggiore agli animali che viceversa, dato che, ovviamente, li cacciavano per cibo. Anche i Kadar, che non possedevano armi da caccia e vivevano soprattutto di igname selvatico, occasionalmente usavano i loro bastoni da scavo anche per uccidere dei piccoli animali per mangiarli (Ibid., pp.156, 158, 196). I metodi di caccia possono essere cruenti. I pigmei Mbuti trafiggevano l’ombelico dell’elefante con una lancia avvelenata; l’animale poi moriva di peritonite (l’infiammazione della membrana addominale) nel corso di 24 ore (Turnbull, Change and Adaptation, p.20; Wayward Servants, p.164; Schebesta, II. Band, I. Teil, pp. 107–111, descrive altri modi cruenti di uccidere gli elefanti). I boscimani colpivano la preda con le frecce avvelenate e gli animali morivano lentamente durante un periodo che poteva durare fino a tre giorni (Thomas, pp.94, 190). I cacciatori-raccoglitori preistorici facevano un massacro di massa spingendo i branchi nei dirupi o giù dalle scogliere (Wissler, pp.14, 270; Coon, p.88). Il processo era davvero orribile e presumibilmente doloroso per gli animali, dato che alcuni di loro non morivano con la caduta, ma rimanevano mutilati. L’indiano Wooden Legge dice: “Ho aiutato a spingere i branchi delle antilopi nel dirupo. Molte di loro morivano o si spezzavano le gambe. Quelle ferite le bastonavamo fino alla morte” (Marquis, p.88). Questo non è esattamente il tipo di cose a cui si appellano gli attivisti per i diritti degli animali. Gli anarcoprimitivisti possono anche affermare che i cacciatori-raccoglitori infliggevano le sofferenza agli animali solo entro i limiti che erano costretti, per ottenere il cibo. Ma questo non è vero. Una buona parte della crudeltà dei cacciatori-raccoglitori era gratuita. Nell’opera The Forest People, Turnbull riporta:

“Il ragazzo aveva colpito [la gazzella] con il primo lancio, spingendola al suolo trafiggendole lo stomaco. Ma l’animale era ancora in vita, combattendo per la libertà. Maipe le trafisse il collo con un’altra lancia, ma continuava ancora a dibattersi e a lottare. Finché una terza lancia pose fine alla lotta colpendone il cuore (...) Un gruppo agitato di pigmei stava in cerchio indicando l’animale morente ridendo. Un ragazzo di circa nove anni si gettò a terra contorcendosi in un modo grottesco, imitando le ultime convulsioni della gazzella (...) In un’altra occasione ho visto i pigmei bruciare le piume agli uccelli ancora vivi, spiegando che la carne è più tenera se la morte avviene lentamente. E i cani da caccia, molto preziosi, venivano presi a calci senza pietà dal momento della loro nascita fino alla morte.” (Turnbull, Forest People, p.101; Schebesta, II. Band, I. Teil, p.90, anche afferma che gli Mbuti colpivano i propri cani da caccia).

Alcuni anni dopo, nell’opera Wayward Servants, Turnbull scrive (p.161): “Il momento dell’uccisione è in verità un momento di compassione intensa e riverenza. Il fatto che talvolta, particolarmente i giovani, successivamente si burlano dell’animale morto, sembra essere principalmente una reazione nervosa, e c’è un elemento di paura nel loro comportamento. Dall’altra parte, un uccello catturato vivo può essere intenzionalmente tormentato, con le piume bruciate sul fuoco mentre ancora si agita e gracida, finché in fine non viene cotto o soffocato. Questo anche viene fatto dai giovani, che provano lo stesso piacere nervoso; molto raramente un giovane cacciatore potrebbe fare la stessa cosa a mente assente” [!?]. I cacciatori più vecchi e gli anziani generalmente lo disapprovano, ma non interferiscono: “Sembra che non ci sia rispetto per la vita animale, bensì per la caccia come un dono della foresta...” Questo non sembra essere molto in armonia con quello che Turnbull aveva riportato nell’opera precedente, The Forest People. Forse Turnbull aveva già iniziato a spostarsi verso la correttezza politica quando scrisse Wayward Servants. Ma anche se le affermazioni di Wayward Servants le prendiamo come un valore apparente, rimane il fatto che gli Mbuti trattavano gli animali con una crudeltà inutile, a dispetto del fatto che loro provavano o meno “compassione e reverenza” verso di loro. Se gli Mbuti avessero provato compassione per gli animali probabilmente sarebbero stati un’eccezione. Sembra che i cacciatori-raccoglitori erano tipicamente crudeli con gli animali. Gli eschimesi con i quali Gontran de Poncins viveva colpivano e picchiavano brutalmente i propri cani (Poncins, pp.29, 30, 49, 189, 196, 198-99, 212, 216). I Siriono talvolta catturavano i cuccioli vivi e li portavano al campo, ma non li nutrivano ed erano trattati così male dai bambini che presto morivano (Holmberg, pp.69-70, 208). Deve essere osservato che molti popoli cacciatori-raccoglitori mostravano un senso di riverenza o vicinanza verso gli animali selvaggi. Ho già citato l’affermazione di Turnbull su questo effetto nel caso degli Mbuti. Coon dice che “tra i cacciatori è in uso una regola ordinaria che non devono mai deridere o insultare nessuna creatura selvaggia che deve essere uccisa” (Coon, p.119). Come nel paragrafo di Turnbull che ho citato, c’erano delle eccezioni a questa “regola ordinaria”. Avventurandosi nelle congetture, Coon aggiunge che “i cacciatori sentono l’unità della natura e la combinazione di umiltà e responsabilità del proprio ruolo in questo” (ibid.) Wissler descrive la vicinanza e la reverenza verso la natura (inclusi gli animali selvaggi) degli Indiani del nord America (Wissler, pp.124, 304-306). Holmberg menziona i “legami” e la “parentela” con il mondo animale (Holmberg, pp.111, 195). Tuttavia, come abbiamo già visto, questi “legami” e questa “parentela” non impedivano la crudeltà verso gli animali. Ovviamente, gli attivisti per i diritti degli animali sarebbero inorriditi dal modo in cui i cacciatori-raccoglitori spesso trattavano gli animali. Per le persone che guardano alla caccia e alla raccolta come ad un loro ideale sociale non ha quindi senso mantenere alleanze con il movimento per i diritti animali.

IX

Per comprendere meglio, citerò brevemente alcuni altri elementi del mito anarcoprimitivista. Secondo questo mito il razzismo è un prodotto della civiltà. Però, non è chiaro se questo è proprio vero. Ovvio, la maggior parte delle popolazioni primitive non potevano essere razziste dato che non sono mai entrate in contatto con nessun altro membro di una razza differente dalla loro. Ma laddove i contatti tra le razze differenti sono avvenuti non ho nessun motivo per credere che i cacciatori-raccoglitori erano meno inclini al razzismo dell’uomo odierno. I pigmei Mbuti si distinguevano dai loro vicini abitanti dei villaggi non solo per la statura più bassa, ma anche per i lineamenti del viso e una pelle più chiara (Turnbull, Forest People, pp.14, 33; Schebesta, I. Band, passim, es. pp. 107, 181, 184, 355). Gli Mbuti chiamavano gli abitanti dei villaggi “neri selvaggi” e “animali”, e non li consideravano dei veri umani (Turnbull, Forest People, pp.47, 120, 167; Wayward Servants, pp.61, 82; Change and Adaptation, p.92). Gli abitanti dei villaggi anche chiamavano gli Mbuti “selvaggi” e “animali”, e non consideravano gli Mbuti dei veri umani (Turnbull, Forest People, pp.47, 234). E’ vero che gli abitanti dei villaggi spesso portavano via le mogli degli Mbuti, ma questo sembra essere stato dovuto solo al fatto che le loro donne, nell’ambiente forestale, presentavano una fertilità molto bassa, mentre le donne Mbuti avevano molti figli (Schebesta, I. Band, pp.106-107, 137). La prima generazione dei matrimoni misti era considerata inferiore (Ibid., p.107) Il fatto che le donne Mbuti spesso sposavano gli uomini del villaggio e le donne del villaggio molto raramente sposavano gli uomini Mbuti, è solo perché le donne “rifuggono dalla pesante vita zingara dei nomadi forestali e preferiscono la sedentaria vita del villaggio” (Ibid., p.108). In più, la generazione del sangue misto nata dall’unione tra le Mbuti e gli abitanti del villaggio di solito rimaneva a vivere nell’abitato, e “solo raramente tornavano a vivere nella foresta, siccome preferivano la vita più confortevole del villaggio alla dura vita della foresta” (Ibid., p.110). Questo è difficilmente compatibile con l’immagine anarcoprimitivista che vede la vita dei cacciatori-raccoglitori piena di agi e di abbondanze. Nel suddetto caso di mutuo antagonismo razziale solo una parte – gli Mbuti – era composta da cacciatori-raccoglitori, gli abitanti dei villaggi erano dei coltivatori. Un possibile esempio di razzismo in cui entrambe le parti erano cacciatori-raccoglitori lo troviamo tra gli Indiani del nord America subartica e gli eschimesi, che si odiavano e temevano a vicenda; raramente si incontravano, tranne che per combattere (Wissler, p.221; vedi anche Poncins, p.165, eschimese uccide due Indiani; e Encycl. Brit., Vol. 13, voce “American Peoples, Native”, p.360, Indiani subartici combattono contro gli eschimesi). E per quanto riguarda l’omofobia? Non era sconosciuta tra i cacciatori-raccoglitori. Secondo la Thomas l’omosessualità non era permessa tra i boscimani che lei conosceva (Thomas, p.87). Questo non vuol necessariamente dire che questo era vero per tutti i gruppi dei boscimani. Tra gli Mbuti, secondo Turnbull, “non si allude mai all’omosessualità, eccetto come un grave insulto, nella provocazione più pesante” (Turnbull, “Wayward Servants”, p.122).

L’editore della rivista anarcoprimitivista Species Traitor in una lettera a me scritta afferma che nelle culture dei cacciatori-raccoglitori “le persone non possedevano la proprietà” (lettera all’autore dell’editore di Species Traitor, 04/07/2003, p.7). Questo non è vero. Sono esistite varie forme di proprietà privata tra i cacciatori-raccoglitori – e non solo tra i sedentari, come erano gli Indiani della costa nord-occidentale. E’ ben risaputo che la maggior parte delle popolazioni dei cacciatori-raccoglitori possedeva terre in proprietà collettiva. Cioè, ogni banda di 30 a 130 persone possedeva il territorio in cui viveva. Coon ci offre un’ampia discussione su questo tema (Coon, pp.191-195). E’ però meno risaputo che i cacciatori-raccoglitori, anche nomadi, potevano altresì detenere dei diritti sulle risorse naturali come proprietà privata, e in certi casi questi diritti potevano addirittura essere ereditati Iibid., p.194). Ad esempio, tra i boscimani della Thomas: “Ogni gruppo possiede un territorio molto specifico, il quale solo questo gruppo può utilizzare, e rispettano i confini molto rigidamente. Se una persona nasce in una certa area, lui o lei ha il diritto di mangiare i meloni che crescono in quel luogo e tutto il cibo della prateria. Un uomo può mangiare i meloni ovunque può farlo la sua moglie e dovunque possono farlo i suoi genitori, e in questo modo ogni boscimano detiene una specie di diritto su molti luoghi. Gai, ad esempio, mangiava i meloni sia ad Ai che a Ha’o perché la madre della moglie era nata là, come anche nel suo logo di nascita a Okwa Omaramba” (Thomas, pp.10, 82-83; vedi anche Cashdan, p.41).

Tra i Veddas (cacciatori-raccoglitori del Ceylon) “il territorio della banda era suddiviso individualmente tra i membri della stessa, che potevano trasmettere la loro proprietà ai figli” (Cashdan, p.41; vedi anche Coon, p.198). Tra certi aborigeni australiani esisteva un sistema di diritti ereditari sui beni ottenuti dallo scambio con le pietre estratte da una cava (Coon, p.275). Tra certi altri aborigeni australiani alcuni frutti degli alberi erano di proprietà privata (ibid., p.168). Gli Mbuti si cibavano anche di termiti e tra di loro il termitaio poteva essere posseduto individualmente (Schebesta, II. Band, I. Teil, pp. 14, 21-22, 275-276). I cacciatori-raccoglitori solitamente possedevano individualmente i beni mobili, come gli utensili, il vestiario e gli ornamenti (Cashdan, p.40, vedi anche ibid., p.37; Schebesta, II. Band, I. Teil, pp.276-278).

Turnbull cita l’argomento di un certo W. Nippold sul fatto che i cacciatori-raccoglitori, inclusi gli Mbuti, avevano un senso di proprietà privata altamente sviluppato. Turnbull lo contrasta dicendo che si tratta di “una cosa discutibile, e in senso più ampio di un problema semantico” (Turnubll, Wayward Servants, p.199, nota 5). Adesso non abbiamo bisogno di spaccare il capello in quattro su quello che la proprietà privata significhi o meno, o cosa sarebbe questo “senso altamente sviluppato”. Basta dire che la convinzione assoluta che i cacciatori-raccoglitori non avevano proprietà privata è solamente un altro elemento del mito anarcoprimitivista. E’ importante notare, comunque, che i cacciatori-raccoglitori nomadi non avevano accumulato proprietà in tal misura da usare i propri beni per dominare gli altri popoli (vedi Coon, p.268; Schebesta, II. Band, I. Teil, pp. 8, 18, sottolinea l’indifferenza degli Mbuti verso l’accumulazione dei beni). Il cacciatore-raccoglitore solitamente doveva portare tutta la sua proprietà sulle spalle ogni volta quando si spostava il campo, o nel migliore dei casi doveva portarla in canoa, o sulla slitta o sul travois (vedi Coon, pp. 57-67). E su ognuno di questi mezzi può essere trasportata solo una ridotta quantità di proprietà, e di conseguenza viene imposto un limite massimo sulla quantità di proprietà che un nomade può accumulare utilmente.


La proprietà sui diritti alle risorse naturali non ha bisogno di essere trasportata, quindi, in teoria, anche un cacciatore-raccoglitore nomade può accumulare una quantità illimitata di questo tipo di proprietà. Però, in pratica non conosco nessun caso in cui un membro di una banda di cacciatori-raccoglitori abbia accumulato sufficiente proprietà sui diritti alle risorse naturali per permettergli di dominare altri popoli mediante questi. Nelle condizioni di vita dei cacciatori-raccoglitori nomadi sarebbe, naturalmente, molto difficile per un individuo imporre un diritto esclusivo su una quantità di risorse naturali più ampia di quello che può personalmente utilizzare. Data l’assenza di beni accumulati tra i cacciatori-raccoglitori nomadi, potremmo supporre che tra di loro non esisteva nessuna gerarchia sociale, ma questo non è proprio vero. Ovvio, non c’è molto spazio per la gerarchia sociale in una banda nomade che conta al massimo 130 persone (inclusi i bambini), e di solito neanche la metà. Inoltre, alcuni popoli dei cacciatori-raccoglitori avevano fatto uno sforzo consapevole, consistente e apparentemente piuttosto riuscito, per evitare che qualcuno si innalzasse sopra il livello degli altri. Ad esempio, tra gli Mbuti non esistevano “né capi né consigli degli anziani” (Turnbull, Wayward Servants, p.14), “l’autorità individuale è impensabile” (Ibid., p.181) e “ogni tentativo di esercizio dell’autorità individuale, o solo di eccessiva influenza, viene duramente attaccato con scherno o ostracismo” (Ibid., p.228). In effetti, Turnbull evidenzia attraverso tutto il suo libro lo zelo con cui gli Mbuti contrastavano ogni assunzione di posizione elevata (Turnbull, Forest People, pp.110-125; Wayward Servants, pp.27, 28, 42, 178-181, 183, 187, 256, 274, 294, 300; Schebesta, II. Band, I. Teil, p.8, dice che tra gli Mbuti era assente ogni inclinazione al dominio, al Herrschucht).

Gli Indiani del nord America subartica non avevano capi (Encycl. Brit., Vol. 13, voce “American Peoples, Native”, p.360.). I Siriono non avevano capi, ma: “Sono alcune le prerogative del capo-tribù. Un capo dà suggerimenti ad esempio sulle migrazioni, sui tragitti di caccia ecc, ma questi non sono sempre seguiti dai membri della sua tribù. Come segno della sua posizione, però, il capo-tribù possiede sempre più di una moglie (...) Anche se i capi-tribù si lamentano molto del fatto che gli altri membri della banda non eseguono i loro obblighi verso di loro, ben poca attenzione viene data alle loro richieste (...) In generale, però, i capi se la passano meglio degli altri membri della banda. Le loro richieste vengono esaudite più spesso in confronto agli altri.” (Holmberg, pp.148-149).

I boscimani che la Thomas conosceva “non avevano né capi né re, solo delle guide la cui funzione di fatto non si distingueva dalle persone che guidavano, e talvolta la banda non aveva neppure la guida” (Thomas, p.10). I boscimani Kung di Richard Lee non avevano capi (Coon, p.238), e come gli Mbuti avevano fatto uno sforzo consapevole per evitare che qualcuno si ponesse sopra gli altri (Bonvillain, pp.20-21). Tuttavia, alcuni altri boscimani Kung avevano capi o guide, il titolo della guida era ereditario, e le guide esercitavano una vera e propria autorità, “la guida o il capo decide chi andrà dove e quando a raccogliere, perché il periodo della raccolta annuale è critico, per assicurarsi le provviste di cibo” (Coon, p.238). Questo è quello che dice Coon sui boscimani del territorio del pozzo d’acqua di Gautscha, e dato che la Thomas conosceva questi boscimani (Thomas, es. pp. 147-147, 199), non è chiaro come accordare l’affermazione di Coon con la sua osservazione che la funzione delle guide “di fatto non si distingueva dalle persone che guidavano”. Non ho accesso ad una vera biblioteca; non ho neanche una copia completa del libro della Thomas, solo le fotocopie di alcune pagine, perciò dovrò lasciare questo problema ad ogni lettore che può essere abbastanza interessato per studiarlo.

Comunque sia, in alcune parti dell’Australia erano presenti dei “capi potenti, che i coloni chiamavano re. Il re portava una corona a forma di turbante molto elaborata, e veniva sempre portato sulle spalle degli uomini” (Coon, p.253). In Tasmania pure erano presenti “capi territoriali con potere considerabile, e in alcuni casi la loro funzione era ereditaria” (Ibid., 251).

Pertanto, anche se la stratificazione sociale era assente o scarsa in molte o in quasi tutte le società dei cacciatori-raccoglitori, l’ipotesi generica che la gerarchia era totalmente assente in tutte le società di questo tipo è falsa.


E’ comunemente accettato, e non solo dagli anarcoprimitivisti, che i cacciatori-raccoglitori avevano un alto senso di salvaguardia dell’ambiente. Su questo tema non possiedo molte informazioni, ma da quello che so sembra che i cacciatori-raccoglitori possedevano un senso eterogeneo di tutela. Tra gli Mbuti era notabile. Schebesta credeva che volontariamente limitavano il numero della propria popolazione per evitare lo sfruttamento eccessivo delle loro risorse naturali (Schebesta, I. Band, p.106; però, almeno nella parte dell’opera che ho letto, non spiega le basi di questa sua convinzione). Secondo Thurnbull “esiste di certo un forte senso ed una ovvia premura a utilizzare ogni parte dell’animale, e di non uccidere mai più di quanto sono le necessità giornaliere della banda. Questo, in realtà, può essere uno dei motivi per cui gli Mbuti sono così restii a uccidere animali in eccesso e preservarli per lo scambio con gli abitanti del villaggio” (Turnbull, Wayward Servants, p.161).

Turnbull afferma anche che “dal punto di vista dei mammalogi, come Van Gelder, i cacciatori [Mbuti] avevano un così alto senso di tutela che lo desidererebbe ogni governo interessato alla salvaguardia” (Turnbull, Change and Adaptation, p.18). Dall’altro canto, quando Turnbull prese uno Mbuti di nome Kenge a visitare una riserva animale fuori nelle pianure, gli disse “che avrebbe visto più selvaggina di quanta ne aveva mai vista nella foresta, ma non per la caccia. Kenge non lo capì perché nella sua mente la selvaggina è fatta per essere cacciata” (Turnbull, Forest People, p.250). Secondo Coon, l’etica degli eschimesi Tikerarmiut li vietava di uccidere più di quattro lupi, ghiottoni, volpi o marmotte a giorno. Tuttavia, questa etica fu presto infranta quando arrivarono i mercanti bianchi, che attrassero i Tikerarmiut con i beni che potevano ottenere in cambio di pelli degli animali nominati (Coon, p.104).

Appena acquisirono le asce in ferro, i Siriono iniziarono a distruggere gli alberi di frutti selvatici della loro regione, perché risultava più facile raccogliere i frutti tagliando l’albero che arrampicarsi sopra (Hotmberg, pp.63-64, 268).

E’ risaputo che certi cacciatori-raccoglitori provocavano incendi perché sapevano che la terra bruciata avrebbe prodotto più piante commestibili (es. Encycl. Brit., Vol. 14, voce “Biosphere”, pp.1191, 1197; Mercader, pp.2, 235, 238, 241, 282, 306, 309; su altri spericolati usi del fuoco vedi Coon, p.6). Io considero questa pratica incurante e distruttiva. Si suppone che i cacciatori-raccoglitori con la propria caccia hanno causato o al minimo contribuito all’estinzione di alcune specie di grandi mammiferi (Mercader, p.233; Encycl. Brit., Vol. 14, voce “Biosphere”, p.1159, 1196; Vol. 23, voce “Mammals”, pp. 435, 448), anche se, quanto ne so io, questo non è mai stato provato con certezza. Quanto detto sopra non ha nemmeno scalfito la superficie della questione di salvaguardia in confronto alla noncuranza ambientale da parte dei cacciatori-raccoglitori. E’ una questione che richiede una ricerca più approfondita.

X

Non posso generalizzare dato che personalmente ho comunicato solo con pochi anarcoprimitivisti, ma rimane ovvio che le convinzioni di almeno alcuni anarcoprimitivisti rimangono sorde ad ogni fatto che contrasta con esse. A queste persone si possono esporre numerosissimi fatti della stessa natura che ho qua presentato, e citare le parole degli autori che hanno veramente visitato i cacciatori-raccoglitori nell’epoca quando erano ancora relativamente intatti, ma il vero credente anarcoprimitivista troverà sempre delle spiegazioni, non importa quanto forzate, per screditare tutti i fatti sconvenienti e per mantenere le sua fede nel mito.

Questo atteggiamento richiama alla mente la risposta dei fondamentalisti cristiani ad ogni attacco razionale alla loro fede. Qualunque fatto venga esposto il fondamentalista troverà sempre qualche argomento, per quanto inverosimile, per giustificare e sostenere la sua fede nell’esatta, alla lettera, verità della Bibbia. In verità, l’anarcoprimitivismo rammenta il primo cristianesimo. L’utopia anarcoprimitivista dei cacciatori-raccoglitori corrisponde al Giardino dell’Eden, dove Adamo ed Eva vivevano in agiatezza e senza peccato (Genesi 2). L’invenzione dell’agricoltura e della civiltà corrisponde alla Caduta: Adamo ed Eva mangiarono il frutto dall’albero della conoscenza (Genesi 3:6), furono scacciati dal Giardino (Genesi 3:24), e per questo dovettero mangiare il pane col sudore della faccia coltivando il suolo (Genesi 3:19,23). Inoltre, persero l’uguaglianza dei generi, dato che Eva venne assoggettata al marito (Genesi 3:16). La rivoluzione in cui gli anarcoprimitivisti confidano abbatterà la civiltà, che corrisponde al Giorno del Giudizio, il giorno della distruzione quando Babilonia cadrà (Rivelazione 18:2). Il ritorno all’utopia primitiva corrisponde all’arrivo del Regno di Dio, quando “la morte non ci sarà più, né ci sarà cordoglio né grido né dolore” (Rivelazione 21:4).

Gli attivisti odierni che mettono a repentaglio i propri corpi praticando tattiche masochiste di resistenza, come ad esempio incatenarsi alla strada per bloccare il passaggio dei camion che trasportano il legname, corrispondono ai martiri cristiani-veri fedeli che “furono giustiziati con la scure per la testimonianza che avevano reso a Gesù e per aver parlato di Dio” (Rivelazione 20:4). Il veganismo corrisponde alle restrizioni alimentari di molte religioni, come il digiuno cristiano durante la Quaresima. Come gli anarcoprimitivisti, così anche i primi cristiani enfatizzavano l’egualitarismo (“Chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”, Matteo 23:12) e la condivisione (“Quindi si faceva la distribuzione a ciascuno, secondo chi ne aveva bisogno”, Atti 4:35). L’affinità psicologica tra gli anarcoprimitivisti e il primo cristianesimo non lascia ben sperare. Appena l’imperatore Costantino diede al cristianesimo l’opportunità di diventare potente si sono svenduti, e da allora il cristianesimo, quasi sempre, ha servito da sostegno a poteri costituiti.

XI

In questo articolo mi sono concentrato soprattutto a sfatare il mito anarcoprimitivista, e per questo motivo ho messo in risalto certi aspetti delle società primitive che sarebbero stati visti come negativi dal punto di vista dei valori moderni. Ma esiste un’altra faccia di questa medaglia: le società nomadi dei cacciatori-raccoglitori presentano numerose caratteristiche molto attraenti. Tra le altre cose, esiste un motivo per cui credere che queste società erano relativamente libere da problemi psicologici che tormentano l’uomo moderno, come lo stress cronico, l’ansietà o la frustrazione, la depressione, disturbi di sonno e di alimentazione, e così avanti; le persone in questo tipo di società sotto alcuni aspetti di importanza fondamentale (ma non sotto tutti gli aspetti) avevano molta più autonomia personale dell’uomo moderno; e i cacciatori-raccoglitori erano più soddisfatti del proprio modello di vita dell’uomo moderno.

Perché questo è importante? Perché dimostra che lo stress cronico, l’ansietà e la frustrazione, la depressione e così avanti, non sono parti inevitabili della condizione umana, ma sono disordini portati dalla civiltà moderna. E neanche la soggezione è una parte inevitabile della condizione umana: l’esempio di almeno certi cacciatori-raccoglitori nomadi dimostra che la vera libertà è possibile. E ancor più importante: se salvaguardavano o meno il proprio ambiente, comunque i popoli primitivi non erano capaci di danneggiarlo in misura neanche più lontana in cui l’uomo moderno sta danneggiando il suo. I primitivi semplicemente non avevano la capacità di provocare così tanti danni. Possono aver usato il fuoco in modo incurante e possono aver sterminato alcune specie con la caccia eccessiva, ma non avevano i mezzi per arginare i grandi fiumi, per coprire migliaia di chilometri quadrati della superficie terrestre con città e strade, o per produrre vaste quantità di rifiuti tossici chimici e radioattivi, con i quali la civiltà moderna minaccia di portare il mondo definitivamente in rovina. I primitivi non possedevano neanche gli strumenti per sprigionare le pericolose forze letali rappresentate dall’ingegneria genetica e dai computer super-intelligenti che potrebbero essere presto sviluppati. Questi sono i pericoli che spaventano anche gli stessi tecnofili (vedi Bill Joy, Why the Future Doesn’t Need Us in Wired, aprile 2000; e Our Final Century del britannico astronomo Reale, Sir Martin Rees). Quindi, sono d’accordo con gli anarcoprimitivisti che l’avvento della civiltà è stato un grande disastro e che la Rivoluzione Industriale lo è stata ancora più grande. Sono anche d’accordo che una rivoluzione contro la modernità e contro la civiltà in generale è necessaria. Ma non si può costruire un efficace movimento rivoluzionario con beoti utopisti, inerti e mistificatori. Ci vogliono persone tenaci, realistiche, pratiche, e persone di questo tipo non necessitano dello sdolcinato mito utopico anarcoprimitivista.

Nota conclusiva

Quando scrissi questo articolo avevo appena iniziato a leggere II. Band, I. Teil [vol. 2, parte 1] dell’opera di Schebesta Die Bambuti-Pygmiien vom Ituri. Dopo averla letta e a causa del genere di discrepanze che trovai tra i racconti di Turnbull e quelli di Schebesta, fui costretto a nutrire dei dubbi sull’attendibilità dell’opera di Turnbull sui pigmei Mbuti. Sospetto adesso che Turnbull consciamente o inconsciamente contorse la descrizione degli Mbuti per farli apparire più attrattivi ai moderni intellettuali di Sinistra, come lo era lui stesso. Nonostante questo, non trovo necessario riscrivere questo articolo per eliminare l’affidamento su Turnbull, perché ho citato Turnbull soprattutto per le informazioni che fanno sembrare gli Mbuti meno attraenti, es. il maltrattamento delle mogli, le lotte e i litigi per il cibo. Data la natura delle distorsioni di Turnbull mi sembra fondato assumere che, se null’altro, avrebbe sottovalutato la quantità della violenza sulle mogli, le lotte e i litigi che ha osservato. Ma penso che sia giusto mettere in guardia il lettore che là dove Turnbull attribuisce caratteristiche attrattive o politicamente corrette agli Mbuti, una certa dose di scetticismo dovrebbe essere necessaria. Vorrei ringraziare tante persone che mi hanno mandato libri, articoli o le informazioni concernenti le società primitive, senza cui aiuto il presente articolo non avrebbe potuto essere scritto: Facundo Bermudez, Chris J., Maijorie Kennedy, Alex Obledo, Patrick Scardo, Kevin Tucker, John Zerzan e sei altre persone che forse non vorrebbero vedere i loro nomi pubblicamente menzionati. Ma soprattutto voglio ringraziare la donna che amo, che mi ha fornito le informazioni più utili, inclusi i due volumi della meravigliosa opera di Paul Schebesta sui pigmei Mbuti.

Elenco delle opere per cognome dell’autore

— Barclay, Harold B., lettera all’editore, in Anarchy: A Journal of Desire Armed, primavera/estate 2002, pp. 70-71

— Black, Bob, Primitive Affluence, in The Abolition of Work / Primitive Affluence: Essays against work di Bob Black, Green Anarchist Books, BCM 1715, London WC1N3XX, 1998

— Bonvillain, Nancy, Women and Men: Cultural Constructs of Gender, seconda edizione, Prentice Hall, Upper saddle River, New Jersey, 1998

— Cashdan, Elizabeth, Hunters and Gatherers: Economic Behavior in Bands, in Stuart Plattner (editore), Economic Anthropology, Stanford University Press, 1989, pp. 21-48

— Coon, Carleton S., The Hunting Peoples, Little, Brown and Company, Boston, Toronto, 1971

— Davidson, H. R. Ellis, Gods and Myths of Northern Europe, Penguin Books, 1990

— Debo, Angie, Geronimo: The Man, His Time, His Place, University of Oklahoma Press, 1976 [edizione italiana Geronimo. Storia e leggenda dell’ultimo capo apache]

— Elkin, A. P., The Australian Aborigines, quarta edizione, Anchor Books, Doubleday, Garden City, New York, 1964 [edizione italiana Gli aborigeni australiani]

— Evans-Pritchard, E. E., The Nuer, Oxford University Press, 1972 [edizione italiana I Nuer: un’anarchia ordinata]

— Fernald, Merritt Lyndon, e Alfred Charles Kinsey, Edible Wild Plants of Eastern North America, Revised Edition, Dover, New York, 1996

— Gibbons, Euell, Stalking the Wild Asparagus, Field Guide Edition, David McKay Company, New York, 1972

— Haviland, William A., Cultural Anthropology, nona edizione, Harcourt Brace College Publishers, 1999

— Holmberg, Allan R., Nomads of the Long Bow: The Siriono of Eastern Bolivia, The Natural History Press, Garden City, New York, 1969

— Joy, Bill, “Why the Future Doesn’t Need Us”, in Wired, aprile 2000, pp. 238-262 [traduzione italiana Perché il futuro non ha bisogno di noi di Tactical Media Crew]

— Leach, Douglas Edward, History of Indian-White Relations, Wilcomb E. Washburn, volume editor. Leakey, Richard E., The Making of Mankind, E. P. Dutton, New York, 1981

— Marquis, Thomas B. (interprete), Wooden Leg: A Warrior Who Fought Custer, Bison Books, University of Nebraska Press, 1967

— Massola, Aldo, The Aborigines of South-Eastern Australia: As They Were, Heinemann, Melbourne, 1971

— Mercader, Julio (editor), Under the Canopy: The Archaeology of Tropical Rain Forests, Rutgers University Press, 2003

— Nietzsche, Friedrich, The Antichrist, §55, in Twilight of the Idols / The Antichrist, tradotto da R. J. Hollingdale, Penguin Classics, 1990 [edizione italiana Anticristo – Crepuscolo degli idoli]

— Nitzberg, Julien, Back to the Future Primitive (intervista con John Zerzan), in Mean, aprile 2001, pp.68, 69, 78.

— Pfeiffer, John E., The Emergence of Man, Harper & Row, New York, Evanston, and London, 1969 [edizione italiana La nascita dell’uomo]

— Pfeiffer, John E., The Emergence of Society, New York, 1977

— Poncins, Gontran de, Kabloona, Time-Life Books Inc., Alexandria, Virginia, 1980

— Rees, Martin, Our Final Century, Heinemann, 2003 [edizione italiana Il secolo finale. Perché l’umanità rischia di autodistruggersi nei prossimi cento anni]

— Richard, Gladys A., Navaho Religion: A Study of Symbolism, Princeton University Press, 1990

— Sahlins, Marshall, Stone Age Economics, Aldine Atherton, 1972 [edizione italiana: L’economia dell’età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive]

— Schebesta, Paul, Die Bambuti-Pygmaen vom Ituri, Institut Royal Colonial Belge, Brussels; I. Band, 1938; II. Band, I. Teil, 1941

— Thomas, Elizabeth Marshall, The Harmless People, Second Vintage Books Edition Random House, New York, 1989

— Turnbull, Colin M., The Forest People, Simon and Schuster, text copyright 1961, Foreword copyright, 1962

— Turnbull, Colin M., Wayward Servants: The Two Worlds of the African Pygmies, The Natural History Press, Garden City, New York, 1965

— Turnbull, Colin M., The Mbuti Pygmies: Change and Adaptation, Harcourt Brace College Publishers, 1983

— Vestal, Stanley, Sitting Bull, Champion of the Sioux: A Biography, University of Oklahoma Press, 1989 [edizione italina: Toro seduto. Campione dei Sioux]

— Von Laue, Theodore H., Why Lenin? Why Stalin?, J. B. Lippencott, Co., New York, 1971

— Wissler, Clark, Indians of the United States, Revised Edition, Anchor Books, Random House, New York, 1989

— Zerzan, John, Future Primitive, in Future Primitive and Other Essays, dello stesso autore, edizione 1994 [edizione italiana Futuro primitivo, Nautilus ed.]

— Zerzan, John, Whose Future?, in Species Traitor, n.1

Opere senza nome dell’autore

Encyclopedia Americana, International Edition, 1998

The New Encyclopaedia Britannica, quindicesima edizione, 2003 (abbreviato Encycl. Brit.). Nota: Le copie dell’Encyclopaedia Britannica classificate come “quindicesima edizione” ma con la data di copyright dopo il 2003 non sono necessariamente identiche alla Britannica del 2003.

The Unabomber Manifesto, Industrial Society and Its Future [edizione italiana La società industriale e il suo futuro. Il manifesto di Unabomber, Ed. Stampa Alternativa]

Riviste

Anarchy: A Journal of Desire Armed, P. O. Box 3448. Berkeley CA 94703, U.S.A.

Green Anarchy, P. 0. Box 11331. Eugene. OR 97440 [versione on-line zinelibrary.info]

Mean

Science News

Species Traitor, P. 0. Box 835. Greensburg. PA 15601

Time

Wired


Dato che la maggior parte delle opere qua citate vengono menzionate in ripetizione, le citazioni sono date in forma abbreviata. Per dettagli bibliografici vedi l’Elenco delle opere citate (p.167), Encycl. Brit. significa The New Encyclopaedia Britannica, Fifteenth 2003.


[1] Esempio: What is ‘Green Anarchy’?, di Black and Green Network, Green Anarchy, numero 9, settembre 2002, pagina 13, “la giornata lavorativa dei cacciatori-raccoglitori solitamente non supera le tre ore”.

[2] Schebesta, II. Band, I. Teil, pp.9, 17–20, 89, 93-96, 119, 159-160, gli uomini fanno gli utensili durante le loro ore “libere”, 170, Bildtafel X, foto delle donne con l’enorme carico di legna sulla schiena.

[3] Le foreste dei Siriono non erano proprio senza sentieri, poiché si erano creati dal continuo passaggio nelle stesse direzioni. Holmberg, p.105. Quanto poco hanno in comune i sentieri curati delle nostre foreste si può capire dal fatto che erano “scarsamente visibili” (p.151), “mai puliti” (p.105) e “impossibili da percorrere per i non iniziati” (p.106).

[4] Non c’è nulla di eccezionale nell’estenuante caccia e raccolta dei Siriono. Ad esempio: “I boscimani dovevano seguire le orme degli gnu attraverso le spine e un deserto torrido...” (Thomas, p.198). “Gli uomini hanno seguito le orme del bisonte per tre giorni...” (Ibid., p.190). L’estenuante vita degli eschimesi è testimoniata nei lavori di Poncins, Kabloona. Vedi anche il resoconto delle escursioni di caccia di Wooden Leg, Indiano Cheyenne del Nordamerica (fatica, cecità da neve, piedi congelati) in Marquis, pp.8-9.

[5] Questo è una specie di super-semplificazione, dato che l’autorità e gli ordini non erano sconosciuti tra i cacciatori-raccoglitori nomadi, però, generalmente parlando, un alto livello di autonomia personale in questo tipo di società è suggerita dalle opere citate in questo articolo. Vedi es. Turnbull, Forest People, p.83; Poncins, p.174.

[6] I cacciatori-raccoglitori nomadi solitamente vivevano nelle bande, che contavano tra 30 e 130 persone, inclusi bambini e neonati, e spesso queste bande si dividevano in gruppi ancora più piccoli. Coon, p.191; Cashdan, p.21. I Siriono spesso cacciavano da soli o in coppia; il numero massimo di persone che partecipavano in una spedizione di caccia era di circa sei-sette uomini. Holmberg, p.51. I pigmei Efe di solito cacciavano in gruppi da due a quattro. Coon, p.88.

[7] Serberò la discussione sullo stress per un’altra occasione, ma vedi es. Poncins, pp.212-13, 273, 292; Schebesta. II. Band. I. Teil. p.18, scrive: “L’attività economica del cacciatore-raccoglitore non conosce né fretta né urgenza, né la preoccupazione agonizzante per il pane quotidiano”.

[8] “(...) prima dell ‘addomesticamento e dell ‘agricoltura, la vita era fatta di ozio... uguaglianza tra i sessi”, Zerzan, Future Primitive, p.16

[9] “(...) fino a 10.000 anni fa... gli esseri umani vivevano mantenendo un’etica ugualitaria con abbondante ozio, uguaglianza tra i sessi...”, John Zerzan, Whose Future? in Species Traitor n.1, le pagine della rivista non sono numerate.

[10] The New Encyclopaedia Britannica, fifteenth edition, 2003, vol.22, articolo “Languages of the World”, sezione “African Languages”, sottosezione “Khoisan Languages”, pp.757-760. Nota: Le copie dell’Enciclopedia Britannica che portano il titolo della “quindicesima edizione”, ma con le date di copyright diverse non sono necessariamente identiche alla Britannica del 2003.

[11] “Non conosco nessun caso di stupro...”, Turnbull, Wayward Servants, p.121. Posso giustificare questa apparente contraddizione tra questa affermazione e il passaggio sopra citato solo supponendo che quando Turnbull scriveva non era ancora apparso il concetto dello “stupro su appuntamento”, e che quindi non aveva considerato questo forzato rapporto sessuale nella capanna come uno stupro, ma le circostanze descritte costituiscono uno stupro. Quindi, quando lui dice che non conosce nessun caso di stupro tra gli Mbuti probabilmente si riferiva a qualcosa più o meno equivalente a quello che noi oggi chiamiamo “stupro di strada”, come opposto allo “stupro su appuntamento”.

[12] Turnbull, Wayward Servants, p.189. Tuttavia, Turnbull è forse incoerente su questa domanda. Vedi il passaggio che ho citato poco fa su Amabosu che ha schiaffeggiato la moglie sul viso e la reazione di Ekianga.

[13] Poncins, pp.112-113. Vedi anche Coon, p.223, “le donne concesse in prestito spesso dicevano che non provavano piacere in questo”.

[14] Gli eschimesi descritti da Poncins usavano i fucili entro certi limiti, perché questi evidentemente non erano il loro mezzo principale per procurarsi il cibo; e non possedevano né motoscafi né gatti delle nevi.

[15] Havilland, p.168, “alcuni dei boscimani dell’Africa meridionale in un’altra epoca erano agricoltori e altri erano pastori nomadi”.

[16] Pfeiffer, Emergence of Man, pp.345-346. Pfeiffer non è una fonte attendibile, ma chiunque abbia accesso ad una buona biblioteca può consultare gli scritti di Richard Lee.

[17] Holmberg, p.69. I boscimani di Richard Lee possedevano i cani. Sahlins, The Original Affluent Society. Così anche gli Mbuti. Turnbull, Forest People, p.101. Schebesta, II. Band. I Teil, pp.89-93.

[18] Vedi Ibid., pp. 207, 225-226, “Le principali malattie di cui i Siriono soffrono sono la malaria, la dissenteria, l’anchilostomiasi e le malattie della pelle”, p.226. La malaria è stata probabilmente portata in America dagli europei. Encycl. Brit., Vol. 7, voce “malaria”, p.725.

[19] Lettere dell’autore a John Zerzan: 13/02/2003, pagina 2; 16/03/2013; 02/05/2003, pp.5-6; 18/04/2004, p.2.

[20] Lettere da John Zerzan all’autore: 02/03/03, 18/03/03, 26/03/03, 12/05/03, 28/04/04, 22/05/04. L’unica cosa che considerai meritasse una risposta a queste lettere era l’affermazione di Zerzan che le fonti da me citate erano ormai “obsolete” (Lettera all’autore, 22/05/04, p.2). Ma non ha dato nessuna spiegazione per questa affermazione. Come ex studente di Storia, Zerzan dovrebbe essere cosciente di quanto è importante avvalersi di fonti primarie, ogniqualvolta sia possibile. Nel presente contesto questo significa avvalersi di racconti dei testimoni oculari, basati sull’osservazione delle società di cacciatori-raccoglitori, in un periodo quando erano ancora relativamente intatte. Però, nei prossimi trent’anni non erano più dei popoli primitivi intatti. Questo vuol dire che ogni risorsa primaria utile a questo scopo dovrebbe risalire perlomeno a trent’anni fa (es., prima del 1975), e anche di più. E’ vero che qua e nelle mie lettere a Zerzan ho fatto affidamento non solo alle fonti primarie, ma anche su quelle secondarie, dovuto al fatto che la mia incarcerazione limita il mio accesso alle fonti primarie. Però Zerzan non ha presentato alcuna prova per discreditare l’informazione che io ho citato a lui da fonti secondarie (o anche da primarie). E neanche una delle fonti più “aggiornate” che ho visto presentare non smentisce l’informazione in questione. Loro principalmente ignorano l’informazione, come se non esistesse. L’intera questione viene messa sotto tappetto.

[21] Bonvillain, p.294. Il foglio che Zerzan mi ha mandato era la fotocopia dello stesso libro, ma edito nel 1995, in cui la frase identica appare nella pagina 271.

[22] Zerzan, Futuro Primitivo, p.26. In un’intervista con Julien Nitzberg, per la rivista Mean, aprile 2001, numero 69, Zerzan dice: “Freud... credeva che prima del linguaggio le persone fossero abbastanza telepatiche”. Nella mia lettera a lui, del 02/05/2003, p.6, ho chiesto a Zerzan di dirmi dove nei suoi lavori Freud ha fatto una simile dichiarazione, ma Zerzan non ha mai risposto a questa domanda.

[23] Zerzan mi ha mandato la fotocopia di una pagina dal libro di Bonvillain, assieme alla sua lettere del 02/03/2003. Nel Futuro Primitivo, pp.34, 36, Zerzan cita “Turnbull (1962)” e “Turnbull (1965)”. Questo probabilmente si riferisce a Forest People e a Wayward Servants. In Futuro Primitivo, p.33, Zerzan cita anche il libro della Thomas, ma di nuovo convenientemente dimentica le affermazioni della Thomas sul parto, quando sostiene (sulla stessa pagina di Futuro Primitivo) che il parto “è facile e indolore” tra i cacciatori-raccoglitori.

[24] A parte l’infanticidio, Schebesta e Turnbull concordano sul fatto che quando nascevano dei gemelli solo a uno dei due era permesso di vivere. Schebesta, I. Band, p.138. Turnbull, Wayward Servants, p.130. Schebesta più avanti (stessa pagina) dice che i bambini nati storpi venivano eliminati. Turnbull però menziona una bambina nata con un’anca “malata” a cui è stato concesso di vivere. Turnbull, Forest People, p.265. Schebesta, II. Band, I. Teil, pp.274, 277, segnala che lo sconfinamento e il furto portavano alla violenza letale, ma Turnbull non menziona cose simili.

[25] E’ ben risaputo che i coyote e almeno alcune specie di orsi mangiano sia gli animali cacciati che le carcasse. Per leoni, faine, volpi, sciacalli, iene, cani procioni, varani di Komodo e avvoltoi, vedi Encycl. Brit., Vol. 4, p. 910; Vol. 6, pp.196, 454, 945; Vol. 7, pp.383, 884; Vol. 9, p.876; Vol. 12, p.439; Vol. 17, p.449; Vol. 23, p.421. Per lupi e ghiottoni vedi Encycopedia Americana, International Edition, 1998, Vol. 29, pp.94-95, 102.

[26] Riporto alcuni esempi che illustrano la tendenza verso il politicamente corretto negli ultimi lavori di Turnbull: Nel 1983 Turnbull scrisse che è contrario alla parola “pigmeo” perché “invita a pensare che l’altezza è un fattore significativo, invece nel Ituri, sia per gli Mbuti che per i loro vicini africani più alti, che vivono vicino, è alquanto insignificante”, Change and Adaption, prima pagina dell’Introduzione. Ma 21 anni prima Turnbull aveva scritto: “Non li preoccupa il fatto che sono [gli Mbuti] circa quattro e mezzo piedi più bassi; considerano il loro vicini più alti, che li deridono per la bassezza, di essere goffi come degli elefanti...”, Forest People, p.14. “Mi compativano [un gruppo di pigmei] per la mia altezza, che mi faceva sentire così goffo”, Ibid., p.239. Turnbull ha anche affermato nel 1983 che gli Mbuti non avevano mai combattuto contro gli africani più alti, che avevano invaso la loro foresta, Change and Adaption, p.20. Però Schebesta, I. Band, pp.81-84, riporta la tradizione orale secondo cui molti Mbuti hanno invece combattuto contro gli abitanti dei villaggi, che li avevano effettivamente respinti (temporaneamente) completamente fuori dalla parte orientale della foresta, durante la prima metà del XIX secolo. Le tradizioni orali non sono affidabili, ma queste storie erano così diffuse da poter indicare con certa probabilità che queste lotte siano veramente accadute. Turnbull non spiega come mai lui sapeva che queste tradizioni erano false e che gli Mbuti non avevano combattuto. Turnbull era a conoscenza dei lavori di Schebesta. Vedi es. Forest People, p.20.

[27] Turnbull, Wayward Servants, pp.157-158; Schebesta, II. Band, I. Teil, p.97, menziona un feroce litigio sulla distribuzione della carne che “quasi portò allo spargimento di sangue”.

[28] Cashdan, p.28; Coon, pp.72-73; Bonvillain, p.20; Encycl. Brit., Vol. 14, voce “Australia”, p.438; Turnbull, Wayward Servants, p.178, probabilmente è stata sottovalutata l’importanza del cibo vegetale nell’alimentazione degli Mbuti (“la caccia e la raccolta avevano la stessa importanza nell’economia”). Secondo Schebesta, I. Band, pp.70-71, 198; II. Band, I. Teil, pp.11, 13-14, gli Mbuti si nutrivano principalmente di prodotti vegetali. Al massimo il 30% della loro alimentazione era costituita dai prodotti animali, e di questo 30% una parte considerevole non era carne vera e propria, ma animali come lumache e bruchi che non venivano cacciati, ma raccolti come le piante.

[29] Per una discussione su questo argomento e su certi altri punti psicologici menzionati in questo paragrafo vedi The Unabomber Manifesto, Industrial Society and Its Future

[30] “The Forgotten Language Among Humans and Nature”, in Species Traitor, n.2, inverno 2002. Le pagine di questa pubblicazione non sono numerate.

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