Titolo: Quale internazionale?
Sottotitolo: Intervista e dialogo dal carcere di Ferrara (1ª e 2ª parte)
Autore: Alfredo Cospito
Origine: via mail
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      QUALE INTERNAZIONALE?

        Prima parte

        Seconda parte

(English version: 325.nostate.net)


Il testo che segue sono le parti prima e seconda di “Quale internazionale? Intervista e dialogo con Alfredo Cospito dal carcere di Ferrara”, parti di un dibattito che alcuni compagni stanno intraprendendo con il compagno anarchico prigioniero Alfredo Cospito, pubblicate rispettivamente nei numeri 2 (autunno 2018) e 3 (inverno 2019) del giornale anarchico in lingua italiana “Vetriolo”. Complessivamente sono state elaborate otto domande, per la verità non proprio dei quesiti ma degli interventi, in qualche caso polemici, per discutere e dibattere con il compagno. Data la complessità e la vastità degli argomenti trattati tutto il testo non poteva e non può essere integralmente pubblicato sulle pagine di un solo numero del giornale. La pubblicazione dell’intervista/dialogo proseguirà, sempre suddivisa in parti, a partire dal prossimo numero e successivamente, quando verrà terminata la pubblicazione in “Vetriolo”, vi è l’intenzione di pubblicare integralmente tutte le domande e le risposte in un libretto o in un opuscolo. Nel frattempo, su richiesta di Alfredo, pubblichiamo anche tramite internet le parti prima e seconda, ovvero quelle fino ad ora uscite nel giornale e, con l’occasione, correggiamo dei refusi e degli errori di battitura presenti alle pagine 6 e 7 del numero 3, dei quali ci scusiamo con i lettori e che riportiamo anche qui di seguito.

Pagina 6, prima colonna: dove scritto “un rumore assordante di opinioni che si accumulano a vicenda” leggere “che si annullano a vicenda”.
Pagina 6, terza colonna: dove scritto “Solo l’irrilevanza rabbiosa dell’iniziativa individuale” leggere “Solo l’irruenza”.
Pagina 7, prima colonna: dove scritto “non avrà più necessità d’essere perché l’umanità non sarà più il potere di niente” leggere “non sarà più il motore di niente”.
Pagina 7, seconda colonna: dove scritto “non dobbiamo trattenerci ma correre in tanti” leggere “ma correre in avanti”.
Pagina 7, seconda colonna: dove scritto “fascisti e recuperato che dicono di sostenere quel movimento”leggere “fascisti e recuperatori”.

Per contatti: vetriolo[at]autistici[dot]org


QUALE INTERNAZIONALE?

Intervista e dialogo con Alfredo Cospito dal carcere di Ferrara

Prima parte

L’internazionalismo è sempre stato il principio che ha ispirato l’agire e l’orizzonte di quegli sfruttati che non accettano il ruolo nel quale la società li ha collocati. E’ da sempre un ottimo vaccino contro l’opportunismo di ogni sorta, una garanzia che chi lo pratica non è il venduto del proprio padrone o di un padrone straniero, ma è autentico nemico di ogni sfruttamento e autorità. L’internazionalismo come tensione, come spirito, non cambia col cambiare del tempo. Cambia però il modo con cui esso si fa reale nella storia. Da sempre riformisti, opportunisti e autoritari hanno cercato di pervertire l’internazionalismo ai propri interessi di bottega. La questione delle questioni, la leva per sollevare il mondo, è quindi l’Internazionale. Come, cosa deve essere oggi l’internazionale? Deve essere una “organizzazione” reale, una federazione di gruppi, un “partito mondiale”? Oppure ci possono strumenti o “strutture” che sono più vicine all’Idea anarchica e che sono più efficaci in questo periodo storico?

L’anarchismo come il socialismo “scientifico” sono sorti per opporsi ad un processo globale, il capitalismo e l’avvento della borghesia. Più che naturale che anarchici/e e marxisti/e fin dalle origini abbiano perseguito con alternate fortune una dimensione organizzativa internazionale. Nel XIX secolo con Bakunin l’anarchia abbandonò il piano filosofico, idealista per compiere i primi passi nel mondo reale. Prima contro il liberalismo messianico di Mazzini per poi scontrarsi con il socialismo statalista di Marx dando origine alla corrente autonomista federalista in seno alla prima Internazionale. Questi primi passi concreti dell’anarchismo furono fatti grazie a due organizzazioni internazionali che oggi potremmo definire “clandestine”, che agivano nell’ombra all’interno del “movimento reale”, quello dei lavoratori, dei proletari. L’Alleanza internazionale della democrazia socialista operante dal 1868 al 1872 e l’Alleanza internazionale dei socialisti rivoluzionari operante dopo il 1872. Per quanto paradossale possa sembrare ritengo ancora oggi di incredibile efficacia e attualità il tentativo di creare organizzazioni internazionali “clandestine” che agiscono sotto traccia all’interno dei movimenti di massa. La concezione “scientifica” di Marx non poteva tollerarlo ritenendola un’ingenuità, una forzatura, un residuo del cospirazionismo settecentesco. Un po’ come oggi la grande maggioranza del movimento anarchico non comprende il complottare di nascosto contro Stato e leggi. Fu per primo Engels a vedere nella “clandestinizzazione”, nel doppio livello il tentativo di egemonizzare l’Internazionale. Col tempo gli anarchici fecero infiniti tentativi di organizzarsi in maniera internazionale: Sant Imier nel 1872, Amsterdam nel 1907, Berlino nel 1921, Parigi nel 1949, Londra nel 1958, Carrara nel 1968 con la creazione dell’IFA… ma col tempo la prospettiva cospirativa si indebolì fino quasi a sparire. Quel “quasi” è costituito negli ultimi decenni soprattutto dagli sforzi delle Federazioni Giovanili Anarchiche agli inizi degli anni ’60 per apportare sotto il nome di “Primo Maggio”, attraverso l’azione distruttiva e la lotta armata, solidarietà alla Spagna sotto il tallone di Franco, e successivamente dal rinascere della prospettiva insurrezionale arricchita dal rilancio del “gruppo di affinità” e della progettualità informale. Fino ad arrivare ai giorni nostri con la nascita della FAI-FRI e con tutte quelle azioni sparse per il mondo che parlandosi tra di loro attraverso le rivendicazioni hanno concretizzato una sorta di “internazionale nera”. Prima di rispondere alla tua domanda su cosa oggi dovrebbe essere l’internazionale e come dovrebbe strutturarsi cerchiamo di chiarirci contro cosa questa internazionale deve muovere battaglia. Soffermiamoci un attimo sul concetto di capitalismo.

Quando si parla di capitalismo non si può non parlare di tecnologia e scienza. Fino a tutto il ‘500 quello della scienza e della tecnologia erano campi separati poi si creò un’osmosi crescente tra i due, fino agli albori del capitalismo più avanzato quando nell’800 scienza e tecnologia diventarono inscindibili. Alcuni sostengono (credo a ragione) che il capitalismo sia sostanzialmente il prodotto dell’unione tra scienza e tecnologia, per meglio dire dell’assoggettamento della scienza alla tecnologia. Quando oggi parliamo di imperialismo parliamo di rivoluzione scientifico-tecnologica. E questa “rivoluzione” porta ad un aumento degli sfruttati, le borghesie vanno assottigliandosi, i diseredati aumentano. Sempre meno persone detengono le conoscenze quindi le ricchezze sul nostro pianeta; questo “nuovo” imperialismo sta aumentando enormemente il divario tra inclusi ed esclusi. Responsabile di questa situazione una fetta esigua di umanità al servizio egli stati moderni e del capitale. Gli stati moderni ed il capitale hanno creato quelle premesse che potrebbero portare all’avvento di un mondo nuovo che scalzerà l’umanità come la conosciamo oggi annichilendo tutta la vita sul pianeta. Scienziati, matematici, biologi, informatici, chimici, ricercatori di tutte le branche della scienza, tecnocrati, tutta l’aristocrazia della conoscenza umana senza i grandi investimenti e le risorse che solo il capitalismo e gli stati con lo sfruttamento della maggioranza della popolazione sul pianeta gli possono dare non potrebbero nulla, tanto meno portare a termine quella “rivoluzione” già in atto da tempo che se portata a “buon” fine comporterà una tale trasformazione radicale della nostra natura che di fatto equivarrà, se non fermata, all’estinzione della specie umana almeno come la conosciamo oggi, ed il cambiamento non sarà certo in meglio. La “lotta di classe” rimane il motore di tutto, la nostra più grande risorsa ma unicamente se si scaglia in ugual misura contro Stato e capitale. Solo il capitalismo e gli stati moderni possono alimentare adeguatamente il processo tecnologico, tanto da portarci verso l’abisso. Ecco, io credo che questa internazionale debba lottare contro stati e capitale ed alimentare l’odio di classe, l’odio degli esclusi, dei poveri, dei proletari indirizzando le energie contro lobbisti, militari, industriali, ricchi, tecnocrati, politici, statisti, tecnici, scienziati. Contro tutti gli inclusi, coloro che detengono le conoscenze ed il capitale e quindi il potere qualunque esso sia. Non è più la tecnologia al servizio del capitale ma sempre più spesso il capitale al servizio della tecnologia è quella la direzione in cui stiamo andando. La logica che ci comanda è sempre meno il semplice profitto ma l’ancora più spietata logica scientifica; una volta fatta una scoperta scientifica è impossibile tornare indietro anche se la conseguente innovazione tecnologica ci porta per mano all’autodistruzione, lo abbiamo visto con le armi nucleari, lo vedremo con l’enormemente più devastante e incontrollabile intelligenza artificiale, si procede in automatico senza possibilità di ritorno. “Noi siamo condannati a tutto ciò che è stato inventato una volta per tutte”. Come siamo condannati a fare il passo successivo fino allo schianto finale. Come il personaggio dell’Odio che precipitando nel vuoto si auto-rassicura pensando “fin qui tutto bene, fin qui tutto bene…”. Non so se sarà l’internazionalismo a salvarci da questa caduta nel vuoto, se come dici tu sarà questa la leva che ci permetterà di sollevare il mondo e sovvertirlo. Ma una cosa è certa: per opporsi a questo nuovo imperialismo in maniera decisiva il collasso del sistema deve essere globale. Le guerre di posizione portano alla sconfitta tanto quanto gli/le anarchici/e che aspettano i momenti maturi per agire hanno già perso in partenza.

E’ qui che entra in gioco la visione anarchica dell’azione. Molto più di una ginnastica rivoluzionaria, di un semplice farsi trovare preparati/e quando arriverà il collasso del sistema. E’ nell’azione che l’anarchico/a si realizza, esiste in quanto tale. E’ nei singoli gesti di distruzione, focolai di rivolta e di insubordinazione, che l’anarchico/a vive la sua anarchia subito, oggi, spezzando l’attendismo. A questa concezione viva, “nichilista” dell’essere anarchico/a si affianca il rapporto prassi – teoria. La teoria per essere efficace deve nascere dalla prassi, non il contrario. Solo scontrandosi armi in pugno con il sistema possiamo costruire l’azione che ci permetterà di dotarci di quegli strumenti “organizzativi”, “informali” che ci consentiranno di contribuire in maniera forte a quella “internazionale” (strumento per incidere in maniera efficace sulla realtà) di cui sentiamo come anarchici/e tanto il bisogno. Noi anarchici questa internazionale ce l’abbiamo nel sangue; la nostra visione contro stati, confini, il nostro rifiuto di qualunque nazionalismo ci porta per mano verso questa prospettiva, bisogna solo concretizzare la risposta a questo bisogno. Questo dialogo tra anarchici/e per il mondo c’è sempre stato, ci siamo sempre influenzati a vicenda da una parte all’altra del globo. Tanti, tantissimi sono stati i tentativi di dare una costanza, una struttura minima a questa visione internazionale del movimento. Ma la teoria che cadendo dall’alto scavalcando la prassi e riducendola ai minimi termini, la burocratizzazione, il gradualismo (sorta di riformismo impotente) hanno penalizzato questi propositi se pur generosi riducendoli (troppo spesso negli ultimi 40 anni) a testimonianza sterile di un passato glorioso. Oggi la progettualità “informale” (basata sulla comunicazione senza intermediari tramite rivendicazioni di azioni distruttive indette da fluidi e caotici singoli e gruppi di affinità sparsi per il mondo) ci sta regalando la possibilità di rilanciare concretamente in maniera pericolosa per il sistema una “internazionale” che potrebbe innescare una reazione a catena inarrestabile. Certo, parliamo di infinitesimali minoranze, ma perché escludere a priori che come spesso avviene in natura un impercettibile virus iniettato magari da una insignificante puntura di una piccola zanzara possa uccidere il possente elefante? E’ una possibilità questa alla quale sarebbe stupido rinunciare; immaginate se gli/le anarchici/e d’azione pur nelle differenze che sono tante riuscissero ad unire le proprie forze salvaguardando la propria autonomia, le proprie diversità. In fin dei conti la nostra è l’unica alternativa al capitalismo che non ha tradito se stessa. Forse perché abbiamo sempre “fallito”. Più di una volta nella storia è capitato di concretizzare barlumi di anarchia ma sempre per brevi periodi, abbiamo preferito soccombere piuttosto che accettare una dittatura “rivoluzionaria”. Questi nostri fallimenti hanno lasciato in noi la forza utopica, primigenia della nostra utopia. E’ nel nostro tendere verso questa che il nostro agire si fa realtà, materia viva, azione, progettualità, prassi – teoria. Se ci soffermiamo su quali forze ci spingono verso l’internazionale vedremo che tutti i tentativi concreti di internazionalizzare le lotte hanno come motore la “solidarietà”, solidarietà per un popolo in lotta, solidarietà per i migranti, solidarietà per delle sorelle e fratelli colpiti dalla repressione… La “solidarietà” è la spinta iniziale, il deus ex machina di ogni lotta che ha l’ambizione di coinvolgere, perché prende vita da un bisogno interiore importante per ogni essere umano, il mutuo appoggio. Tu mi chiedi cosa debba essere l’internazionale e quali siano gli strumenti, le strutture più anarchiche ed efficaci in cui questo nostro bisogno profondo dell’internazionalismo si possa esprimere. E’ una questione controversa, i punti di vista possono essere molti. Nella storia del nostro movimento organizzazioni specifiche, federazioni, addirittura partiti, ricordiamoci l’UAI che veniva definita dallo stesso Malatesta un partito anarchico, sono tutte state sperimentate anche sul piano internazionale con alterne fortune e comuni fallimenti. Lontano da me giudizi “morali” su quale forma organizzativa o meno adottare. Altrimenti ci impelaghiamo in discorsi gesuitici su cosa è o non è anarchico elargendo scomuniche a destra e manca, ho passato la vita a farlo e mi sono reso conto solo oggi che è una enorme perdita di tempo e energie. Quello a cui posso cercare di dare una risposta è quale sia per me oggi la “struttura” o lo “strumento” più efficace per concretizzare un’internazionale anarchica potente, aggressiva, pericolosa. Che faccia sanguinare il potere, facendogli male, facendogli la guerra in maniera efficace. Sarò chiaro e breve: per me questa “internazionale” ha già una sua forma, delle sue dinamiche se pur abbozzate. Con i suoi alti e bassi e con le sue piccolezze e grandezze è costituita da tutto quel mondo di sorelle e fratelli che attraverso le rivendicazioni anche senza acronimi si parlano dandosi appoggio e solidarietà a vicenda indicendo campagne di lotta per il mondo. All’apparenza poca cosa, ma che in sé contiene una grande speranza, una reale possibilità che dopo il fallimento del determinismo scientista marxista può ridare speranza agli oppressi della terra, portare nuova linfa ad un’anarchia che rischia di annullarsi in un gradualismo post-anarchico che dietro la parvenza di “realismo” ci consegna mani e piedi legati alla politica del piccolo cambiamento, del riformismo. Solo non rimandando ad una domani lontano la rivoluzione, ma vivendola subito, con violenza, senza compromessi, mediazioni potremo spingerci fuori da questo vicolo cieco. Nei miei contributi e scritti dal carcere so di essere ripetitivo. Non è l’originalità a tutti i costi che vado cercando ma quelle poche idee che ho le ripeterò fino alla nausea nella speranza che vengano discusse. Sono fermamente convinto che il nodo che bisogna sbrogliare per diventare più incisivi e arrecare il maggior numero di danni a questo sistema iper-tecnologico che si regge su due stampelle, capitalismo e stati, sia quello di come “organizzarsi” senza tradire noi stessi, senza cedere alcuna libertà individuale nel farlo. La mia adesione al progetto FAI-FRI la dice lunga su quale secondo me è la strada da percorrere e cosa dovrebbe essere questa “internazionale”. Avremo modo di parlarne più avanti, è un discorso semplice e complesso allo stesso tempo che come tutte le cose vitali oltre ad “unire” divide il movimento creando tensioni, fraintendimenti, e non ultima repressione e siamo appena all’inizio…


I media annunciano in pompa magna l’arrivo dei robot. Staremo a vedere. Qual è il ruolo che la scienza gioca nel mondo dello sfruttamento però è chiaro da millenni. Come fermare questo mostro ora che minaccia di sconvolgere per sempre la vita su questo pianeta? Quale prospettiva dovrebbe ispirare l’agire dell’internazionale nei confronti degli scienziati? L’azione diretta individuale potrebbe essere accompagnata da esplosioni di massa, come in passato fu il movimento “luddista” (ad esempio da parte di gente che ce l’ha con i robot perché gli tolgono il lavoro o gli peggiorano i ritmi di schiavitù)? E come vedi movimenti “storici” come l’ELF, l’ALF e simili?

E’ vero, i media annunciano in pompa magna l’arrivo dei robot. E quando lo fanno quasi sempre legano questo fenomeno al pericolo della disoccupazione, qualche media più fantasioso si spinge oltre vedendo nell’avvento dei robot il superamento dell’umano, una dittatura delle macchine alla quale contrapporre un umanitarismo generico. Sono decenni che ci bombardano con il pericolo di una catastrofe ecologica imminente suggerendo nel migliore dei casi una tecnologia digeribile, ecologica e nel peggiore (agli ecologisti più “radicali”) la speranza in un collasso spontaneo del sistema. Perché i media lo fanno? Ci forniscono un’enorme mole di informazioni che ci conduce per mano a soluzioni fittizie, un “umanitarismo generico” che fa da contraltare ad un altrettanto generico concetto, quello di “popolo”, suggerendoci una supposta inevitabilità della catastrofe da cui solo il “destino”, un meteorite, una guerra nucleare, l’arrivo degli uomini verdi ci potrà salvare. In questo modo minano la nostra volontà convincendoci che il possibile sia impossibile. Lasciandoci solo due “alternative”, la falsa speranza in una tecnologia a misura d’uomo o la rassegnazione all’inevitabile nella falsa speranza che “dio”, il “destino” ci strappi dall’incubo. Cosa contrapporre a tutta questa merda? La coscienza piena delle nostre forze, la coscienza piena di chi sia il responsabile dello sfruttamento, delle guerre, della catastrofe prossima ventura. Una sola classe ha il controllo della società ipertecnologica. Una sola classe gode dei suoi benefici, agli altri spazzatura, briciole, sfruttamento. Non sono i robot i nostri nemici, ma coloro che li progettano, capitalismo e stati che finanziano questi progetti, uomini e donne in carne ed ossa. Sono sicuro di sfondare una porta aperta dicendo che è una contraddizione in termini una “società liberata” che usufruisca di una ipertecnologica. Bisogna avere il coraggio di rinunciare al “progresso”, bisogna avere il coraggio di opporsi armi in pugno giocandosi la vita per fermare questo processo autodistruttivo che non è affatto inevitabile. Solo lo sfruttamento sistematico di miliardi di donne e uomini può sostenere la modernità, non c’è “utopia” comunista di Stato che tenga. Questo almeno finché le redini saranno in mano a noi imperfetti umani, una volta che la classe dominante sarà costretta a delegare (cedere) il comando (di una “megamacchina” oramai troppo complessa da gestire) ad una “superintelligenza” allora si che ci aspetterà un “benessere virtuale” per tutti, un “benessere infernale” senza libertà alcuna che non auguro neanche al mio peggior nemico. Ma chiariamoci meglio, di cosa stiamo parlando: per quanto “fantascientifico” e fumoso possa sembrare stiamo parlando di una “rivoluzione” che se non fermata stravolgerà la vita di tutto il pianeta. Se il capitalismo è il figlio alienante e alienato della supremazia della tecnologia sulla scienza possiamo facilmente dedurre che il prodotto di questo rapporto è la “megamacchina” in cui oggi tutti viviamo immersi. Il passo successivo sarà la presa di coscienza di questa “megamacchina” attraverso l’A. I. (intelligenza artificiale). Andiamo per gradi, gli investimenti nel mondo sull’A. I. in questo momento sono consistenti e si moltiplicano di anno in anno. Nel 2016 l’Europa ha investito 3,2 miliardi di euro, si prevedono 20 miliardi di euro nel 2020. Gli Stati Uniti ne hanno già investiti 18 e se ne prevedono 37 nel 2020. 12 miliardi di euro in tutto il mondo nel 2017 unicamente per lo studio di algoritmi in grado di imparare dai propri errori, in maniera autonoma. In stadio avanzato la creazione di computer neuromorfici che invece di svolgere calcoli basati su codici binari (acceso – spento) usano processori che scambiano segnali come fanno i nostri neuroni. Raggiungendo velocità infinitamente maggiori e dimensione sempre più ridotte, e metodi di funzionamento sempre più “vicini” alla nostra mente. Le ricadute sul mercato se pur parziali ci sono già: – macchine a guida autonoma – medicina (analisi cartelle cliniche, radiografie, malattie, virus) – robotica (tutti i sistemi che gestiscono i robot) – automazione industriale – analisi e gestione di sistemi complessi come la viabilità di una metropoli – sistemi automatici di gestione – analisi e previsione dell’andamento delle borse – analisi e previsioni in campo meteorologico e agricolo – analisi di video e testi e immagini pubblicate online – gestione della logistica. Oggi a gestire questa “rivoluzione” un numero limitato di scienziati, tecnici super specializzati in altrettanti pochi centri sparsi per il mondo. Sono tutti alla portata di un’internazionale anarchica combattiva se pur limitata nelle forze. Le sue migliori armi? Volontà e determinazione, basterebbero queste due qualità per ricacciare indietro, rallentare questo “progresso” tecnologico che vogliono farci credere inarrestabile. Abbiamo ancora tempo a disposizione e spazio di manovra soprattutto perché il “sistema” non è ancora pienamente cosciente della svolta che sta per apprestarsi a compiere e gli investimenti per quanto ingenti sono appena agli inizi. E’ molto probabile che le burocrazie governative, le agenzie di intelligence abbiano una certa inettitudine, rigidità che impedirà loro di comprendere a pieno l’importanza di alcuni sviluppi che a noi esterni a queste logiche ed a certi specialismi potrebbe essere chiara. Diciamo che il nostro essere fuori e contro il sistema ci potrebbe consentire una maggiore visione d’insieme, una maggiore elasticità mentale. Gli ostacoli alla comprensione di una tale “rivoluzione” tecnologica, di una tale svolta potrebbero essere particolarmente forti per i governi, per gli stati ed i capitalisti.

Ma in cosa consisterebbe questa svolta, questa “rivoluzione” tecnologica? La rivoluzione agricola si è diffusa nel mondo in migliaia di anni, la rivoluzione industriale in centinaia, la rivoluzione informatica in qualche decennio ed avrà il suo apice, il suo “punto di non ritorno” con quella che tecnici e scienziati definiscono “esplosione d’intelligenza”. La “Human Brain Project” fondata nel 2005 spera di ricreare un cervello umano nel giro di 20 anni. Da quel momento si innescherà la cosiddetta “esplosione”, il passaggio da una intelligenza umana ad una super-intelligenza (sovra-umana). Gli scienziati sostengono che una volta raggiunte le capacità intellettive umane in brevissimo tempo (addirittura mesi) si innescherà l’esplosione di intelligenza che consisterà in una crescita esponenziale ed incontrollata delle capacità intellettive dell’A.I. Da quel momento il rischio di perdere le redini del nostro destino si farà altissimo, per la felicità dei transumanisti l’homo sapiens si trasformerà in qualcosa d’altro, qualcosa di oscuro, un aborto della natura, un cancro per questo pianeta più di quello che siamo già. Fortunatamente per noi gli scienziati per loro natura sono spesso troppo “ottimisti” nei tempi e “fantasiosi” nelle prospettive. Possiamo ben sperare nelle nostre capacità di contrastare se non invertire questo processo. Dipende da noi, dalla nostra lucidità, dalle forze che metteremo in gioco, dalle armi che metteremo in campo. L’importante credo sia non farsi prendere dal catastrofismo, che non ci rafforza ma ci porta alla rassegnazione dell’inevitabile. Per farci un’idea più precisa del salto tecnologico che la “modernità” attraverso la superintelligenza ci promette, proviamo a leggere un paio di definizioni che i tecnici danno di questa: «qualunque intelletto che superi di molto le prestazioni cognitive degli esseri umani in quasi tutti i domini di interesse», una macchina ultra intelligente, è «una macchina che può superare di gran lunga tutte le attività intellettuali di qualunque essere umano, per quanto intelligente». La super intelligenza secondo chi ci lavora sarà la panacea di tutti i mali, la lampada di Aladino che risolverà tutti i nostri problemi energetici, di inquinamento, economici, troverà la cura per tutte le malattie, addirittura ci promette se non l’immortalità, l’amortalità. Ma gli stessi scienziati e tecnici che delirano di questi progressi futuri (che, sia chiaro, per forza di cose andranno a “beneficio” della sola classe degli inclusi) ne sono terrorizzati e ne considerano l’avvento estremamente pericoloso, tanto da rendere risibili i pericoli dell’era atomica, di una guerra nucleare. Scienziati e tecnici che ancora lontanissimi da raggiungerla studiano con disperazione possibili trappole realtà virtuali in cui contenerla, ingannarla, ingabbiarla una volta raggiunta. Paure e speranze, la legge della scienza ci condanna al “progresso”, ad andare avanti costi quello che costi a scapito anche della nostra sopravvivenza come specie. Ma quale peggiore condanna per uno/a schiavo/a che un’amortalità che prolunga l’agonia di una vita senza libertà. Noi anarchici/e siamo sempre stati/e sensibili a queste “problematiche” perché niente di più in questi anni ha messo in discussione le nostre libertà quanto la “modernità”, la tecnologia. Negli anni non ci siamo certo limitati alle analisi sociologiche su tecnica e tecnologia. La parte di noi più propensa all’azione, quegli/lle anarchici/e che hanno messo in pratica l’azione diretta distruttiva attraverso l’informalità ed i gruppi di affinità hanno dispiegato un armamentario teorico e pratico sui punti sensibili e periferici da colpire, fibre ottiche, cavi elettrici, tralicci… La linea di tendenza è stata quella che dal centro bisognasse spostarsi alla periferia del sistema dove i controlli sono inferiori, dove le linee vitali se interrotte con mezzi riproducibili (fuoco, tronchesi…) potrebbero arrecare danni notevoli, ultimamente si parla molto di interrompere il flusso delle merci. Questa tendenza oggi prevalente tra gli insurrezionalisti deve (secondo me) la sua nascita alla contrapposizione dell’anarchismo d’azione al “lottarmatismo” BR della fine degli anni ’70 quando la parola “d’ordine” per gli/le anarchici/e divenne quella che lo Stato non aveva un cuore, un centro. Questo quando le BR sostenevano la necessità di colpire “il cuore dello Stato” nelle figure dei suoi uomini più significativi. Molti decenni sono passati, tutto è cambiato ma questa “formula” che aveva un senso forte all’epoca si è trasformata in un “mantra”, in un “dogma” che si è perpetuato uguale a se stesso, perdendo sempre più senso diventando foriero di ottusità, intransigenza, giustificazione per paure mai espresse. Questa metodologia, almeno per quanto riguarda il paese in cui mi trovo a vivere, si è ridotta ad un rifiuto (mai ammesso, ma di fatto praticato) di colpire le persone, i responsabili diretti delle nefandezze del sistema. Per molti/e anarchici/e esiste solo il “sabotaggio” e l’azione distruttiva (il colpire e distruggere le cose). L’esclusività di questa pratica è molto diffusa anche nell’ambiente “ecologista” con poche ma significative eccezioni, Kaczynski per dirne una. Questa propensione ad escludere azioni violente contro le persone la fanno loro (con qualche sporadica eccezione al loro interno) anche l’ALF e l’ELF. “Organizzazioni” queste che sono per altri motivi un esempio importante (perché concreto) di come ci si possa “organizzare” in maniera destrutturata. Come dicono alcuni/e compagni/e “l’organizzazione che non ha e non vuole organizzazione”. Indubbia, secondo me, la loro influenza sulla pratica della FAI-FRI, basti pensare al loro comunicare attraverso le azioni ed alle loro campagne internazionali. Spero avremo modo di parlarne approfonditamente più avanti… Qui in Italia in ambito anarchico in controtendenza negli ultimi anni solo alcune azioni della FAI. I tanto denigrati “pacchi bomba”, una pratica antica che per quanto se ne dica fa parte della “tradizione” anarchica. Basti pensare ai cosiddetti “galleanisti” in America o alle spedizioni di bauli esplosivi fatte dagli anarchici fuoriusciti in Francia durante il fascismo indirizzate ai maggiori quotidiani italiani, solo per dirne qualcuna. Come ho già detto in passato, lo stravolgimento della “storia”, l’epurazione di fatti scomodi non è una pratica esclusivamente stalinista, anche noi anarchici/e nel nostro piccolo la pratichiamo, spesso inconsapevolmente. Tu mi parli di movimento luddista, dagli/lle anarchici/e e non solo questo movimento troppo spesso viene presentato come esempio esclusivo della pratica del “sabotaggio”, cancellando una parte di quella storia poco digeribile per una certa visione dell’azione. Nell’armamentario dei luddisti vi era anche l’omicidio, non si limitavano alla sola distruzione dei telai. Nel 1812 William Horsfall, proprietario di una fabbrica tessile, fu sparato (ucciso) in un agguato, qualche giorno prima aveva promesso ad i suoi operai che avrebbe soffocato qualunque rivolta e che il sangue luddista sarebbe arrivato fino alla sua sella. Fu lui a soccombere, fu il suo sangue a scorrere. Per quel gesto di rivolta furono impiccati tre luddisti. Non fu un caso sporadico, quando leggiamo le giuste esaltazioni del luddismo non sentiamo quasi mai citare questo genere di azioni. Perché? Forse il “sabotaggio” è più sovversivo, più pericoloso per il sistema che l’eliminazione fisica di un padrone? Certo oggi comporta una reazione maggiore da parte del sistema, una maggiore repressione. Ma la “paura” non è mai una buona consigliera, ci fa perdere razionalità, il senso della realtà. Sono forse dovuti al senso di perdita della realtà i tomi e tomi, le infinite disquisizioni “sociologiche” che molti/e anarchici/e fanno sul termine “terrorismo”, e su quanto questa parola possa “isolarci” e sia il prodotto unico del potere. Il terrorismo è una pratica che gli/le anarchici/e (come quasi tutti i movimenti rivoluzionari e di popolo) hanno sempre utilizzato. Non mi stancherò mai di dirlo per quanto sconveniente e foriero di repressione possa essere, perché credo che l’onestà intellettuale e la coerenza siano legati a doppio filo, e per essere credibili e quindi efficaci nell’azione bisogna essere onesti con se stessi e con gli altri, e non ragionare secondo la convenienza immediata ma con la ragione in prospettiva. Il terrorismo inteso come pratica che sparge terrore nella classe dominante come fece Emile Henry, come fecero gli algerini colpendo i bar francesi (infiniti gli esempi), per quanto possa essere discutibile sul piano “morale” non ha mai isolato nessuno e la storia che c’ lo dice. Il terrorismo dal basso verso l’alto ha tutte le giustificazioni del mondo. Scusate se sono uscito fuori tema, ma certe cose per quanto scomode dovevo dirle. Passiamo alla prossima domanda…

(Pubblicato in “Vetriolo”, giornale anarchico, n. 2, autunno 2018)

Seconda parte

Analizzando la storia del movimento degli sfruttati, dei poveri, oppressi e proletari, vediamo che le idee anarchiche nascono, si nutrono e si sviluppano in questi contesti; d’altronde vengono da lì anche la maggior parte degli anarchici (ovviamente ci sono anche le eccezioni). Queste idee sono nate principalmente durante la nascita e la crescita del capitalismo industriale (indicativamente dagli inizi del 1800 fino agli anni ’70 del 1900), difatti fino a 40 anni fa le organizzazioni degli sfruttati e dei lavoratori sono principalmente di massa ed i gruppi anarchici (e gli individui che ne fanno parte) sono anche frutto di quell’epoca storica. Con l’avvento della ristrutturazione capitalistica degli anni ’80, a cui segue un drastico cambiamento del mondo del lavoro, anche l’agire e l’organizzazione anarchica subiscono delle modifiche; alle classiche organizzazioni di sintesi (o di massa) si contrappongono la strutture meno rigide basate sull’affinità e l’informalità. La nuova ristrutturazione tecnologica, basata principalmente sulla robotica porterà ovviamente ad altri drastici cambiamenti (disoccupazione di massa) e i nuovi proletari saranno probabilmente impiegati nello spostamento delle merci. In questo contesto, in cui aumenterà l’impoverimento dei proletari (oltre ovviamente allo sfruttamento di umani, animali e terra) e la ricchezza degli sfruttatori, ha ancora senso parlare di lotta di classe? Ci sono ancora i margini per poter coinvolgere –nella lotta per la distruzione di questa civiltà tecno-industriale – gli sfruttati, i proletari, gli esclusi? Si dovrebbero sperimentare o rinnovare forme di organizzazione di lotta?

Questa domanda parte da presupposti logici facendo dipendere il metodo organizzativo dalle condizioni esterne. Ma per noi anarchici/e non è tutto così semplice, lineare e logico perché non essendo dei “politici” nel nostro caso sono i “mezzi che giustificano i fini”, non viceversa. Di conseguenza se il capitalismo si “ristruttura” non deve cambiare il nostro modo di “organizzarci” perché è nei mezzi che usiamo che vive la nostra anarchia. La nostra fortuna è che la pratica anarchica dell’informalità e dei gruppi di affinità non è mai stata così aderente alla realtà quanto oggi. Paradossalmente non siamo stati noi ad adattarci alla realtà, è stata la realtà ad adattarsi a noi. La realtà ci è corsa incontro rendendo estremamente efficaci le nostre pratiche che col tempo sono diventate l’ideale per scardinare un sistema complesso e caotico come quello in cui siamo costretti oggi a sopravvivere. Solo una pratica semplice, estremamente riproducibile ed altrettanto caotica, sfuggente ed adattabile alla bisogna come l’”informalità ed i “gruppi di affinità” può riuscirci. Questi modi di “organizzarsi” non sono un adattamento alla “ristrutturazione capitalista” degli anni ’80: fin dai tempi di Cafiero e della sua “propaganda col fatto” essi sono sempre stati alla base dell’agire anarchico tanto da caratterizzare le nostre stesse organizzazioni di sintesi. All’interno di ogni organizzazione di sintesi anarchica che si poneva in maniera rivoluzionaria vi erano infatti gruppi di affinità che agivano in maniera informale, spesso indicando la via da percorrere e rinfocolando l’azione.

E’ inoltre assurdo pensare che la lotta di classe sia finita, vi siamo immersi fino al collo ma a differenza di ieri l’imbarbarimento dovuto all’isolamento tecnologico (che ognuno di noi si porta dietro) ci priva della reale percezione del fenomeno nel suo complesso. Questo imbarbarimento comporta un ritorno a forme primordiali, selvagge (quindi più pure) di conflitto di classe. Le figure di mediazione “sindacati” e “partiti” sono saltate. Nella parte più “progredita” tecnologicamente del mondo il soggetto sociale che un tempo caratterizzava la classe degli oppressi, il “proletariato”, è stata sostituita da una classe indefinita e disperata che non ha alcuna coscienza di sé. Nel frattempo l’odio, la rabbia si sono accumulati saturando l’aria, rendendola irrespirabile e pronta ad esplodere alla prima scintilla della giusta intensità. Lo sa bene il potere che pur avendo in mano carte meno buone delle nostre le gioca al meglio alimentando conflitti tra poveri. Ma sono solo palliativi, solo per poco efficaci. I sindacati ed i partiti di sinistra non funzionano più. Il loro ruolo di pompieraggio è stato sostituito da armi di distrazione di massa come razzismi e patriottismi. Ma quanto potrà durare? La strategia di mettere poveri contro più poveri ha il fiato corto, il tempo contato. L’impoverimento generale dovuto all’ondata tecnologica ed alla conseguente disoccupazione disinnescherà razzismi e patriottismi, ma solo se giocheremo bene le nostre carte. Nel tempo necessario per riassestarci e per garantire a tutti redditi di cittadinanza (reali e non truffaldini come quelli dei 5 stelle) il sistema sarà esposto pressoché inerme ai nostri attacchi. In quel lasso di tempo l’odio raggiungerà il suo culmine e forse sarà la volta buona che in questo disgraziato paese la rabbia verrà indirizzata verso i reali responsabili della miseria: Stato e padroni.

Inoltre l’impazzimento popolare per il sovranismo sta indebolendo la democrazia parlamentare minandola dalle fondamenta. Questa sorta di “populismo” produce spinte contrastanti e irrazionali difficili da gestire per gli stessi che le hanno scatenate. Oggi la possibilità che la nostra azione possa aprire una breccia si fa reale. Bisogna avere idee chiare, convinzione e tenacia per far cambiare di campo l’odio, per aprire gli occhi agli sfruttati/e. Volontà e determinazione possono portare indietro l’orologio della storia, facendoci ricominciare da dove avevamo iniziato a perdere quelle due qualità insostituibili. Un secolo fa siamo stati sopraffatti dalla forza di un “comunismo” autoritario che ci ha avvelenato con i suoi frutti, “socialdemocrazia” e “dittatura del proletariato”, che con la loro brutalità portarono al tramonto il “mito” della rivoluzione sociale del “sol dell’avvenire” e dell’anarchia come concrete prospettive di liberazione totale. Abbiamo sostenuto nella nostra “modernità” di non aver bisogno di “miti” ma così abbiamo ucciso l’utopia, la più grande arma che avevamo per sovvertire questo mondo. Storicamente abbiamo puntato troppo sulla razionalità, sulla scienza trascurando gli istinti di rivolta, i sentimenti, le passioni alla base dell’umano.

Abbiamo perso di vista “la possibilità di farcela” e questo ci ha invigliacchiti a tal punto da non riconoscere per esempio la grandezza del gesto di un nostro fratello, Mikhail Zhlobitsky, che si è fatto saltare in aria nella sede del FSB di Arkhangelsk per vendicare i propri compagni e compagne torturati dagli sbirri russi. Un contributo incalcolabile alla lotta, che il cinismo di un certo anarchismo con superiorità bolla come martirio, culto del sacrificio. Ma ciò non impedirà che la propaganda col fatto di questo giovanissimo compagno acquisti oggi il valore fondante di una anarchia vitale, pronta a giocarsi tutto pur di liberare questo mondo. Le cose stanno cambiando velocemente, gli anarchici si stanno risvegliando dal loro torpore. Stiamo assistendo in ambito anarchico a fenomeni impensabili fino a pochi anni fa, ad esempio la diffusione del comunismo anarchico in un paese come il Bangladesh dove il protagonismo della classe operaia rimane forte. (Per inciso è prematuro parlare della fine della classe operaia, ancora per molto nel sud del mondo la manodopera umana sarà più economica rispetto a quella dei robot). Assistiamo al passaggio dai tragici fallimenti del comunismo di Stato alle belle speranze del comunismo anarchico. Una parte importante di un intero popolo, quello curdo, sembrerebbe aver adottato una sorta di “socialismo libertario”, ecologista e femminista.

Più vicina alla mia visione della pratica anarchica la tendenza informale agisce “organizzandosi” in mezzo mondo attraverso campagne internazionali indette da gruppi di affinità, colpendo a macchia di leopardo in maniera caotica e nichilista. L’aria è satura di elettricità, questa tensione si avverte persino in questa cella. Convinto, come sono, che stiamo andando inesorabilmente incontro ad una “tempesta perfetta”, non possiamo permetterci di mettere da parte alcuna ipotesi di lotta. Tanto meno possiamo rinunciare alla violenza in tutte le sue sfumature e gradazioni. Siamo relativamente pochi, il tempo a nostra disposizione è limitato, dobbiamo solo giocarci bene le nostre carte e mettere da parte falsi moralismi e titubanze. Se vogliamo avere almeno una possibilità dobbiamo farci portatori di una visione più aperta, non sprecare energie preziose calpestandoci i piedi a vicenda.

Mi chiedi se si dovrebbero sperimentare o rinnovare forme di organizzazione di lotta, sarebbe più che sufficiente se ognuno mettesse in pratica con convinzione, tenacia, coerenza la propria progettualità. Che sia in una prospettiva sociale o antisociale o attraverso l’organizzazione informale o specifica di sintesi o individualmente l’unica discriminante dal mio punto di vista per non farsi strumento dei riformisti è la violenza insurrezionale. Bisogna iniziare subito, adesso a praticarla, ognuno secondo l’intensità necessaria per la propria progettualità. Una strategia che non include lo scontro diretto, armato col potere è destinata al recupero, al fallimento, alla sconfitta. Questo recupero ha molti nomi e giustificazioni: “gradualismo”, “postanarchismo”, ultimamente Negri e Hardt ne hanno sfornato un altro teorizzando un “riformismo antagonista”. Le solite sirene che giustificano le nostre paure, che alimentano la nostra rassegnazione, facendo un gran servizio al potere. Alla luce della mia prospettiva “violentista” ti dico che per evitare qualunque forma di recupero basterebbe agire da anarchici/e. Sono infinite le nefandezze che gridano vendetta, bisogna dimostrare con l’azione che il re è nudo, che il padrone può e deve sanguinare. In compagnia o da soli colpire e mirare bene. Se il nostro discorso vuole farsi “sovversione sociale” è necessario tornare ad essere “riconoscibili” e “credibili”:

La “riconoscibilità” può essere ottenuta attraverso la rischiosa, chiara e diretta pratica delle azioni rivendicate, con o senza acronimi. Oppure da quelle azioni anonime che sono immediatamente riconoscibili per gli obiettivi che vanno a colpire o per il modus operandi dell’azione stessa. Altrettanto chiaro e diretto può essere lo spezzone anarchico di un corteo che si scontra col servizio d’ordine, un blocco, una barricata in fiamme che porta la guerriglia nella metropoli. Un’A cerchiata disegnata al fianco di una caserma in fiamme parla chiaramente tanto quanto una rivendicazione. Se il nostro fine è quello della “sovversione sociale” diventa prioritario comunicare con gli altri/e oppressi/e, che tutti e tutte capiscano chi siamo e cosa vogliamo. I nostri mezzi di comunicazione, periodici, libri, siti… non bastano. Hanno un senso forte nell’approfondimento, nel miglioramento della nostra visione della realtà, nel rafforzamento dell’analisi, nella conoscenza e di conseguenza nello sviluppo delle nostre pratiche, ma non riescono ad intaccare la cortina di silenzio che il potere erige a difesa della “democrazia totalitaria”. Un silenzio, quello della democrazia, fatto di un rumore assordante di infinite opinioni che si annullano a vicenda. Solo le azioni distruttive riescono a far breccia in quel chiacchiericcio ed attraverso di esse le nostre parole acquistano un valore reale riuscendo ad arrivare con forza e concretezza. La televisione, i giornali, le radio, i siti sono costretti a parlarne facendo arrivare forte e chiaro il nostro messaggio anche a chi non si è mai sognato di mettere in discussione l’esistente. Stiamo parlando di fatti e parole che arrivano a milioni di donne e uomini. Non è assurdo pensare che qualcuno/a di loro possa in questo modo prendere coscienza e farsi nostro/a complice. Basterebbe quello per darci una possibilità in più.

La “credibilità” è invece data dalla coerenza tra pensiero e azione. Per chi si accosta a noi deve essere chiara la nostra estraneità a leader, gerarchie e sessismi di sorta. Chi si avvicina alle nostre pratiche deve sapere con certezza che mai scenderemo a compromessi col potere e che nessuno sarà lasciato da solo ad affrontare la repressione. La “credibilità” di conquista anche attraverso il coraggio e la coerenza che dimostriamo individualmente quando le cose si mettono male. Una volta arrestati, a costo di rimanere isolati e schiacciati da una repressione implacabile, non cedere di un passo. Ma soprattutto consiste nella fiducia che ci guadagniamo sul campo. Chi si unisce agli anarchici/e deve avere la certezza che non tradiremo mai la parola data e che costi quello che costi raggiungeremo gli obiettivi che ci siamo dati o soccomberemo nel farlo.

La “riconoscibilità” e la “credibilità” ci costeranno lacrime e sangue e si potranno raggiungere unicamente attraverso una tenacia disperata. Chi si riempie la bocca di “guerra sociale” deve necessariamente prenderne atto e prepararsi alla guerra. Solo così per “tappe” successive torneremo ad essere “fiumana, miriade, schiera, marea”. E’ arrivato il momento di far rinascere “l’anarchia vendicatrice”, di tornare a far paura. Per quanto sembri difficile bisogna riuscire a far convivere la suggestione del “mito” con la riflessione della “progettualità”. Solo così la “rivoluzione” tornerà ad essere una prospettiva reale per milioni di sfruttati/e perdendo la sua connotazione di “attesa dei tempi maturi” che me la rende oggi una parola vuota, nemica. Attraverso la rivolta individuale ognuno di noi, in gruppo o da soli, una passo alla volta, un attacco alla volta ridaremo nuova vita all’idea di rivoluzione restituendogli un senso concreto, anarchico.


Gli anarchici sono storicamente “intervenuti nel sociale”, come si direbbe oggi, con idee chiare e azioni necessariamente violente, in diversi ambiti e contesti. Da sempre nella storia hanno creato timore, terrore e preoccupazione sia alle classi privilegiate che ad ogni autorità, governo o istituzione e naturalmente anche a tutte quelle componenti politiche rivoluzionarie autoritarie. Oggi, parimenti al livello di violenza che il capitalismo mette in atto nella guerra permanente e nella società tecno-industriale, la risposta di ribellione dovrebbe essere certamente maggiore di quanto sia. Però, se da una parte troviamo a livello sociale lotte cittadiniste che partono già con un certo tipo di orientamento politico ed anche frange dell’antagonismo che pongono in essere logiche di recupero del conflitto sociale, come ad esempio: la candidatura politica, la contrattazione istituzionale, la regolarizzazione (casa occupate), derive autoritarie, scioperi pacifici, fornendo un buon cuscinetto sponda sul quale il sistema può contare di appoggiare; dall’altra parte esiste anche un movimento di opposizione radicale e di solidarietà vivo, nonostante negli ultimi anni ci sia stato un declino ed una riduzione della conflittualità anche da parte degli anarchici. Quello che preoccupa di più, e da cui nessuno è esente, è la condizione di smarrimento ed impreparazione che ritorna nonostante momenti e opportunità interessanti di alcuni contesti di lotta. Espressioni come “intervento nel sociale”, o “lotta reale”, sono diventati giochi di semantica, parole atte talvolta a giustificare una politica da associazionismo laico, alternativo, fra i tanti. Non dovrebbe essere secondo te di interesse degli anarchici, dei rivoluzionari, portare e spingere ad un auspicabile livello di scontro e conflitto con lo Stato, contro la proprietà privata, con mezzi e pratiche violente, invece di cercare salvagenti strategico-politici di mediazione con la società civile legalitaria ed istituzionale?

Non posso che darti ragione e rispondere di “sì” alla tua domanda. Mi spingo oltre dicendoti che il primo muro che troviamo a difesa del sistema sono proprio queste logiche di recupero, questi “…salvagenti strategico-politici di mediazione” come li chiami tu. Accettare queste logiche proprio adesso che questo muro si sta incrinando è più che mai suicida e nonostante tutto, ancora oggi, in questo periodo di crisi sistemica, troppi “anarchici/e e rivoluzionari/e” cadono nella trappola senza neanche accorgersene. Ogni volta che evitiamo lo scontro di piazza perché nell’assemblea si è deciso un corteo “comunicativo”. Ogni volta che durante il picchetto di uno sciopero si sottostà alle decisioni prese dai rappresentanti di “base” evitando lo scontro violento “suicida” con gli sbirri. Ogni volta che per mantenere la propria casa occupata o “centro sociale” si media andando verso la pacificazione, questo muro si rafforza. Alla base di questo rafforzamento il continuo rimandare lo scontro violento e armato col sistema. Bisognerebbe trovare il coraggio di mettersi contro la maggioranza dei nostri stessi compagni/e assumendoci la responsabilità di alzare il livello dello scontro. Solo l’irruenza rabbiosa dell’iniziativa individuale scavalcando la “razionalità” delle assemblee può darci questa forza, sconfiggendo titubanze e paure. Ma la forza ed il coraggio non bastano, bisogna anche avere una certa lucidità. Nonostante le opportunità che i tempi ci regalano non riusciamo ad approfittare delle occasioni che ci si presentano davanti. I nostri sforzi vanno dispersi, siamo in prima linea in ogni conflitto, scontro di piazza, in molti casi siamo noi con la nostra decisione e iniziativa a rafforzare i “movimenti”, ma poi i frutti vengono raccolti da altri. Il nostro messaggio appare offuscato, non riesce a spiccare il volo. E’ sempre più spesso la nostra azione a rendere visibili e rafforzare questi movimenti, ma poi? E’ come se mancasse qualcosa e quel qualcosa, dal mio punto di vista, sono le azioni armate che dovrebbero in maniera lucida e puntuale affiancarsi, anche in tempi e spazi diversi, alle varie lotte, dando maggiore respiro al nostro messaggio, alla nostra lotta in strada.

Mi tocca ora fare chiarezza su un punto fondamentale per me. Io non metto su piani qualitativamente diversi la lotta fieramente individuale, “nichilista” per capirci, “anti-sociale”, fine a se stessa, del “colpire perché è semplice e bello e giusto scontrarsi con il potere” e quella rivoluzionaria di “sovversione sociale”. Questo perché ambedue queste prospettive sono di fatto profondamente “anti-sociali”, ambedue queste prospettive devono per forza di cose scontrarsi con la “società”. Il nostro conflitto con il “sistema” è sempre contro la “civiltà” perché questa è nata a difesa e intorno al sistema stesso, ne è parte integrante. Di conseguenza la nostra lotta non può che essere contro questa “società”, forgiata a difesa di una “civiltà” che ci sta portando sull’orlo dell’abisso.

Noi anarchici/e dobbiamo aprire contraddizioni, creare conflitti. Possiamo dire che siamo nati per questo, siamo nati per opporci in maniera disperata alla “mostrificazione” dell’umanità. Al contrario di quello che sostenevano i situazionisti il “valore” oggi risiede nella “distruzione” e non come loro sostenevano nella “rivolta che sarà trasformata in progetto”. Non abbiamo niente da costruire, non saremo noi e probabilmente neanche i/le nostri/e figli/e ad edificare la società liberata, dobbiamo accontentarci di “tendere” verso questa. La volontà di distruzione deve bastare a se stessa, non deve farsi creatrice. Questo “nichilismo” sarà la nostra forza, il nostro unico “progetto”. Dovrebbe consistere nel come organizzarsi o non organizzarsi per apportare il maggior numero di danni possibile. Mi dirai che oggi il mondo è pieno di volontà di distruzione, guerre, conflitti, violenze ma sono tutte creatrici di “nuovo” ordine, rafforzano il “sistema”. Le nostre “violenze”, le nostre “guerriglie”, il nostro “terrorismo” per intensità a confronto sono risibili ma per quanto possano sembrare insignificanti ci regalano non in prospettiva ma subito nel concreto la soddisfazione di due bisogni irrinunciabili per l’essere umano: libertà e felicità. Debord diceva che bisogna “fare il disordine senza amarlo”, io penso invece che bisogna amarlo, amarlo profondamente. Noi anarchici/e questo “disordine” ce lo portiamo dentro. Per noi non dovrebbe essere un’amara medicina da trangugiare velocemente ma un dolce miele da assaporare con lentezza e piacere. In questo piacere c’è la morte del “martire”, del “sacrificio”. Martirio e sacrificio di cui stupidamente vaniamo accusati ogni volta uno di noi viene imprigionato o ucciso. Per me non cambierebbe nulla se la situazione non fosse (come oggi secondo me è) propensa all’azione, ricettiva ad accogliere il nostro intervento. Agirei comunque nello stesso modo, continuando a colpire senza esitazione perché è nella nostra natura lottare qualunque sia la situazione sociale in cui ci troviamo a vivere. Detto ciò, è assurdo pensare che la nostra azione (anche se individuale o “slegata” dalla situazione sociale) non influenzi la società in cui siamo comunque immersi. Nel nostro “ignorare” o “andare oltre” la situazione sociale non risiede il rifiuto della realtà, perché noi siamo il prodotto della realtà. L’utopia anarchica è il fine “ultimo” che gli oppressi si sono dati, l’espressione “massima” della loro lotta al capitalismo. Un obbiettivo da raggiungere subito da parte degli anarchici, un fine da “raggiungere” in un “futuro lontano” da parte dei comunisti. L’anarchia è stata la speranza che ha sostenuto gli oppressi nella loro lotta sanguinosa al capitalismo. Le nostre idee sono il frutto del rifiuto del capitalismo da parte del proletariato, non sono filosofia astratta ma il prodotto di una classe che voleva “rivoltare” il mondo. Poi le cose col tempo si sono complicate… la posta in gioco è aumentata, l’ingordigia e la sete di potere di una classe oggi mettono in pericolo la sopravvivenza stessa della vita sul pianeta. Dobbiamo oggi prendere atto che il “capitalismo” sta mettendo in pericolo la vita di tutti, ormai è una questione di vita o di morte. Il “capitalismo” tra le altre cose è il sistema di assoggettamento attraverso il quale la “megamacchina” si nutre. Solo la sua efficienza attraverso lo sfruttamento di miliardi di donne e uomini può nutrire la tecnologia fino al grande “salto” allo “svezzamento” quando lo stesso “capitalismo” non avrà più necessità d’essere perché l’umanità non sarà più il motore di niente e verrà o “mostrificata” (diventerà altra da sé) o semplicemente verrà estinta. Già ora è molto importante cominciare a ragionare come se il sistema “tecno-industriale” fosse un unico organismo vivente perché la sua complessità è tutta indirizzata ad un unico obiettivo: la ricerca di risorse per espandersi, per evolversi. Gli esseri umani che gli hanno dato vita (scienziati, tecnici, fisici…) gli hanno trasmesso le leggi stesse della vita, di ogni vita: la sopravvivenza ad ogni costo e la ricerca di spazi vitali, nutrimento, energia; come ogni organizzazione complessa questo sistema tende a sopravvivere a se stesso, a dominare e inglobare tutto ciò che lo circonda. Bisogna abbattere il “capitalismo” in tutte le sue versioni in modo che il nutrimento non possa più alimentare questa “macchina” infernale di sfruttamento e oppressione, prima che ci uccida, prima che arrivi a “svezzarsi”, che si affranchi dall’umano. Bisogna che tutto crolli se vogliamo avere un futuro degno di questo nome.

Tornando a noi, tu mi parlavi di “lotta reale” e “intervento nel sociale” che sono diventate parole sempre più spesso giustificatrici della mediazione. Secondo me questi due concetti hanno cominciato a perdere di consistenza quando da un punto di vista “razionale” abbiamo cominciato a dividere il “movimento reale” (la lotta degli oppressi) dal movimento specifico anarchico (gli/le anarchici/e). Da quel momento, il solo esserci posti questa distinzione, ha fatto di noi “altra cosa”; per assurdo questa nostra “logicità” ci ha fatti diventare “avanguardia”, ci ha privati di senso di concretezza spingendoci ad inseguire un’astrazione, il “popolo”. L’ossessione di non fare il passo più lungo della gamba, di non essere compresi (seguiti) dalla “gente”, ci ha trattenuto e paradossalmente ci ha trasformati in un minuscola “minoranza agente”, di fatto in una sfigata avanguardia. Quale rivoltoso si pone il problema di non essere seguito dagli altri? Agisce nel modo che più in quel momento gli aggrada spinto dalla giustezza della sua azione, dalla rabbia, dalla passione. Prende atto del pericolo che in quel momento corre, si fa i suoi calcoli, ma certo non si pone il problema della comprensione da parte del “popolo”. Si sente popolo, è popolo. Noi anarchici/e dobbiamo semplicemente agire nello stesso modo, non veniamo dalla Luna, siamo oppressi come gli altri, non dobbiamo trattenerci ma correre in avanti, farci trascinare dalla rabbia, dalla passione, non centellinare i passi. Non serve renderci invisibili, mimetizzarci tra la “gente”, non ci rende più “popolo” ma ci indebolisce permettendo a qualunque forza per quanto reazionaria di recuperare le istanze di rivolta. Dobbiamo parlare con l’esempio a tutti e tutte come anarchici/e con sincerità ed onestà. La “politica” con le sue strategie di compromesso e le sue furberie ci tarpa le ali e rimanda la “rivoluzione”. Faccio un esempio concreto. La rivolta in Francia dei “gilet gialli”. Gli/le anarchici/e dovrebbero rendere evidente, come in parte hanno fatto, il loro essere in prima linea negli scontri di piazza, per esempio attraverso scritte sui muri delle vetrine sfondate o dei ministeri colpiti, ma poi spingersi oltre affiancando alla lotta di strada attacchi mirati a persone e strutture del governo ed a fascisti e recuperatori che dicono di sostenere quel movimento. Ci troviamo davanti ad un rapporto morboso: da una parte, un movimento anarchico che pur non volendo e proprio per questo si fa “avanguardia” e, dall’altra, il “movimento reale” (la rivolta degli oppressi). Bisogna superare questa dicotomia, ogni volta che il movimento reale e il movimento anarchico si sono coesi tutto è diventato possibile. Ogni volta che la “rivoluzione” si è fatta anarchica il mito, la passione, il coraggio, la fascinazione hanno avuto il sopravvento. Vorrà pure dire qualcosa? Ogni nuova idea si impone sulla realtà attraverso la fascinazione, il mito. Possiamo rifiutarli togliendoci delle possibilità, ma non possiamo sostituirle con la fredda razionalità ed il cinismo della “politica” di chi non ha mai voglia di lanciare il proprio cuore oltre l’ostacolo. La paura ossessiva che noi anarchici/e abbiamo di diventare “avanguardia” spesso nasconde la paura di prenderci le nostre responsabilità, di giocarci la vita. Io rimango comunque ottimista perché sono convinto che l’anarchia ha molto più a che fare con l’alchimia che con la scienza essendo sopratutto istinto, passione, fascinazione, mito e amore per la libertà.

(Pubblicato in “Vetriolo”, giornale anarchico, n. 3, inverno 2019)