Titolo: Qualche riflessione sulla solidarietà
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Kairos, journal anarchiste, n. 2 – gennaio 2018

Come comportarsi di fronte alla repressione statale? Combatterla, diranno tutti gli animi in rivolta. Sì, ma appunto, qual è la differenza fra lottare contro questo mondo nel suo complesso, e quindi anche contro la prigione, ed esprimere solidarietà verso alcune persone precise, colpite dalla repressione statale (sapendo che questo secondo approccio, quello della solidarietà, non può essere separato dalla lotta complessiva contro questo mondo)?

Anche se desidero farla finita con la Giustizia, le prigioni ed ogni tipo di privazione della libertà, quindi desideri la libertà per tutte le persone incarcerate, io non sono solidale che di un’infima parte di queste. Sarei in effetti solidale con le persone che lasciano trascorrere il tempo, rassegnate, piegando la schiena di fronte al sistema penitenziario, oppure si adattano al meno peggio, cercando di ottenere qualche piccolo beneficio? Con le persone di merda, che si possono trovare in galera (esattamente come fuori)? Non idealizziamo i/le detenuti/e, in quanto vittime di una Giustizia odiata: molti di loro sono ben lungi dall’essere individui con i quali vorrei avere dei contatti.

No, non sono solidale delle 70.000 persone che sono in galera attualmente in Francia (senza parlare delle migliaia sottoposte alle misure “alternative” o sempre sotto la spada di Damocle della Giustizia). La mia solidarietà va ai/le prigionieri/e che non si rassegnano, che non si riconoscono nella Giustizia e nell’autorità, che cercano di lottare nonostante tutto. A quelli e quelle che non hanno aspettato di essere rinchiusi/e per battersi. Tra l’altro, alcuni/e colgono il momento opportuno per evadere, grazie soltanto alla loro intelligenza e determinazione. A volte, tale desiderio di libertà è talmente forte che sono numerosi/e i/le prigionieri/e che scuotono le mura, rispondendo colpo su colpo ai torturatori in uniforme. Non troppo tempo fa, abbiamo ancora avuto la prova che le rivolte all’interno dei CIE possono aprire delle brecce che permettono a qualche “indesiderabile” di scappare.

La solidarietà con una persona incarcerata in particolare è anche e soprattutto legata alle sue idee ed ai suoi principi: è evidente che portare della solidarietà offensiva a una persona che ragiona in funzione del Diritto cioè dello Stato e delle sue leggi, non ha alcun senso.

Penso che nella parola solidarietà ci sia qualcosa di più del bello ma vago slogan “libertà per…”. La solidarietà, per me, è molto esigente: dovrebbe essere une forma di condivisione e di riconoscimento reciproco, che passa al di là di mura ed altri dispositivi di privazione della libertà, a volte spezzando il silenzio che circonda quelli e quelle che riescono a sfuggire alla repressione e scelgono la latitanza. Potrebbe trattarsi di una forma di condivisione e di riconoscimento che presuppone un minimo di prospettive comuni, diciamo (forse esagerando appena), una possibilità di complicità, che cerca di mantenere i/le compagni/e imprigionati/e (e gli altri detenuti) all’interno di dinamiche di offensiva contro questo mondo.

Certo, quando penso alla solidarietà vorrei riferirmi a qualcosa di più del (necessario, ma insufficiente) sostegno economico od affettivo. Le visite, i mandanti (e i soldi dati a famiglie ed amici per i loro viaggi al carcere, spesso lunghi, oppure a volte agli avvocati), le lettere, le chiamate telefoniche, tutto quello che è sostegno economico, umano e legale è indispensabile per una persona detenuta. Un mucchio di detenuti/e sono abbandonati/e, con pochissimi o nessun contatto con l’esterno, con tutto quello che ne deriva: una miseria ancora maggiore, che a volte li obbliga a fare dei compromessi, come piegare la testa per non perdere le poche briciole assicurate da un lavoro in detenzione. Ma esistono delle associazioni umanitarie (o religiose) che offrono sostegno ai/le detenuti/e ed il loro ruolo non è altro che quello di una valvola di sfogo che aiuta ad evitare l’esplosione dei conflitti, affinché il sistema carcerario possa funzionare senza intralci. La solidarietà degli anarchici non deve limitarsi a questo.

Non troppo tempo fa, si parlava ancora di “solidarietà rivoluzionaria”, precisamente in contrapposizione a queste forme “materiali” di sostegno. Se di questi tempi l’idea di “rivoluzione” ha perso molto della sua immagine, il sistema carcerario, lui, invece, prospera.

Credo quindi che bisognerebbe esplorare di nuovo delle pratiche “forti” di solidarietà, che non si limitino al sostegno economico, affettivo e legale, ma che si fondano sulla condivisione di visioni del mondo e di attitudini conflittuali verso la prigione e la Giustizia.

Non giriamoci attorno: la solidarietà con delle persone che sono dietro le sbarre a causa delle loro scelte sovversive (idee e azioni, riconosciute o presunte) è l’azione sovversiva distruttiva. Certo, al giorno d’oggi, in Francia nessuno ha la forza materiale di liberare qualcuno da una prigione (ma non dimentichiamo che in altri tempi questo è stato possibile e che in altri Paesi ci sono persone che ci provano ancora senza tregua: pensiamo ai bei tentativi d’evasione dei membri di Lotta Rivoluzionaria o dei compagni della Cospirazione delle Cellule di Fuoco, in Grecia). Nulla ci impedisce, invece, di far pagare al Potere un po’ del dolore che fa vivere ai/le compagni/e imprigionati (e a tutti i detenuti in rivolta).

Vedo una tale solidarietà “attraverso gli atti” come un possibile dialogo dentro-fuori che, ben lungi dall’infantilizzare i/le compagni/e detenuti/e e di compatirli in quanto vittime di turno, li rende partecipi di un dibattito che passa oltre le mura, fondato sullo scambio, la riflessione e l’attacco. C’è sempre un aspetto di “dissimmetria” nel rapporto fra i/le compagni/e fuori ed una persona detenuta, dovuto al fatto che la persona incarcerata è molto limitata nelle sue scelte ed ha bisogno dell’intervento delle persone fuori (molto più del contrario, anche se questo esiste). Non dimentichiamo che lottare senza mediazioni né compromessi all’interno di una prigione comporta molti più rischi di repressione che fuori.
Credo che fra questi due poli opposti (e tutto quello che c’è fra di loro), cioè da una lato la carità (o ancor peggio la politica, cioè la strumentalizzazione di una situazione di repressione) e dall’altra la complicità nella rivolta, dovremmo sempre tendere verso quest’ultima. In una prospettiva di solidarietà “conflittuale”, attraverso le loro riflessioni, a volte i loro atti di disobbedienza, i detenuti diventano parte integrante di una più larga lotta contro questo mondo, che va ben al di là del mero fatto repressivo.
Gli attacchi distruttivi non cambieranno, nell’immediato, la situazione dei/le compagni/e in prigione. Spero, ciononostante, che questi possano dare loro della forza di spirito, del coraggio ed anche che potranno far passare il messaggio che, malgrado il fatto che la Giustizia si accanisca su una persona in particolare a causa delle sue idee e/o delle sue scelte ed atti, un tale accanimento è completamente inutile per far cessare delle pratiche sovversive, poiché dappertutto queste vengono riprodotte.
Certo, ci saranno sempre dei realisti dal sangue freddo (che ragionano con il Codice penale in testa) che mi diranno che agendo in questo modo non si fa che peggiorare la situazione dei/le compagni/e in galera e di quelli e quelle che rischiano di finirci. Poco importa, a questo stanco realismo io continuo a preferire la dignità della disobbedienza, contro tutto e tutti.

Se lo Stato pensa di aver calmato gli animi mettendo sotto chiave alcune persone che Giustizia e media descrivono come “cattive” (rispetto a quelle che restano docili, fuori, limitando le loro pratiche a ciò che è autorizzato da questa bella democrazia!), eh, beh, dimostriamogli che, al contrario, questo ci fa diventare tutti/e molto più “cattivi/e”*.


* Nota : fra l’altro, questo dovrebbe essere fatto anche in maniera preventiva, quando la polizia cerca di mettere sul conto di qualcuno le responsabilità di alcuni attacchi, appoggiandosi anche sull’inazione di spettatori che, a parte gridare “hurrà!” (e ancora…) di fronte a certe belle azioni dirette, restano calmi, esponendo quindi, per difetto, quelli e quelle che agiscono.


(tradotto da guerresociale)