#title La passione per la libertà
#subtitle Intervista a Jean Weir
#lang it
#SORTtopics Italija, Italiano, solidarietà, rapina, carcere, insurrezionalismo, Elephant Ed., Download
#notes Intervista originariamente pubblicata nel [[http://325.nostate.net/library/8-325_net1.pdf][numero 8 della rivista 325]], settembre 2010.
Ripubblicata da [[http://untorellipress.noblogs.org/post/2013/09/21/passion-for-freedom-an-interview-with-jean-weir/][Untorelli Press ]]
Traduzione italiana di CrnTrn, febbraio 2015. Tutte le note sono del traduttore.
#pubdate 2018-10-10T16:10:10
#cover j-w-jean-weir-la-passione-per-la-liberta-3.png
#ATTACH j-w-jean-weir-la-passione-per-la-liberta-4.pdf j-w-jean-weir-la-passione-per-la-liberta-5.pdf
*Allora, com’è che ti sei fatta arrestare, il 19 settembre 1994,
insieme ad altri quattro compagni (Antonio Budini, Christos
Stratigopulos, Eva Tziutzia e Carlo Tesseri) con l’accusa di rapina a
mano armata alla Cassa Rurale di Serravalle d’Ala (TN), in Italia?
Qual è stata l’evoluzione della tua vita che ti ha portato a quella
situazione?*
Com’è che mi sono fatta arrestare quel 19 settembre 1994? Beh,
ovviamente non si è trattato di un “crimine perfetto”... Un paio di
persone del posto hanno visto dei tizi scavalcare una staccionata in
località Chizzola e andare nei boschi su per le montagne: ne è seguita
una massiccia “caccia all’uomo” e nel giro di qualche ora siamo stati
tutti presi. Ma non credo sia questo ciò che intendevate. Mi avete
chiesto come la mia vita è evoluta fino portarmi a quel momento.
Cercherò di rispondere a questa domanda, che sembra implicare il fatto
che quello sia stato una specie di momento culminante verso il quale
la mia vita avrebbe teso.
In realtà non è così. Se le cose fossero andate diversamente e non
fossimo stati presi, nessuno avrebbe saputo di quel fatto. Sarebbe
stato, semplicemente, “un giorno tra i tanti” nella vita di alcuni
compagni anarchici.
Non credo ci sia nulla di eccezionale nel fatto che alcuni anarchici
decidano di riprendersi una parte di ciò che è stato sottratto a noi
tutti – abbiamo da affrontare il problema della sopravvivenza, come
tutti gli altri diseredati, e per di più non vogliamo semplicemente
“sopravvivere”, ma desideriamo andare oltre le restrizioni della
povertà ed agire sulla realtà. Alcuni compagni credono che
l’espropriazione sarà un evento di massa nel quale tutti gli sfruttati
agiranno insieme, il grande giorno, altri invece non vogliono
aspettare all’infinito che questo accada e passando tutta la vita da
sfruttati, oppure partecipare allo sfruttamento altrui.
Guardando indietro, quello che è stato eccezionale è il fatto di avere
avuto compagni con i quali fosse possibile discutere di tutto e,
magari, agire insieme in conseguenza. Dico “eccezionale”, anche se
allora era normale. Ciò che approfondisce la conoscenza dell’altro (e
di sé stessi) è trovarsi all’interno di una lotta comune –
manifestazioni, incontri, discussioni, azioni, ecc. – nella dimensione
di un movimento anarchico informale. Le relazioni fra i compagni si
approfondiscono, si arriva a conoscere davvero l’altro, non solo per
quanto riguarda i nostri scopi, ma anche il modo in cui siamo fatti in
quanto individui, la maniera in cui reagiamo, i nostri punti di forza
e di debolezza. Penso che, a partire da una situazione di questo
genere, sia naturale per dei compagni che si conoscono ed hanno
fiducia gli uni negli altri, entrare più approfonditamente in certi
argomenti e decidere di sperimentare per far avanzare la propria lotta
ed aprire nuove possibilità in ogni campo.
Per gli anarchici, l’assenza di gerarchia concerne anche l’azione.
Quando viene portata avanti all’interno di una dimensione progettuale
che possiede una vera tensione verso la libertà, la validità di
un’azione di un tipo qualsiasi dipende dall’esistenza di tutti gli
altri tipi d’azione.
*Durante il processo, i media e lo Stato italiano si sono
scatenati; ma qual è stata la tua esperienza della solidarietà da
parte di altri anarchici e ribelli, durante tutto il procedimento
giudiziario e poi durante la detenzione?*
In effetti, quei fatti hanno portato a due processi... no tre.
Innanzitutto c’è stato il processo per la rapina in questione, poi
siamo stati accusati di altre due rapine in quella zona[1], cosa che
ha dato origine ad un secondo processo (che è durato molti mesi),
durante il quale è emersa una pentita che ha poi portato all’infame
processo Marini[2].
I media locali si scatenarono subito dopo la rapina di Serravalle
(vicino a Rovereto): c’erano tutti gli ingredienti del cocktail
mediatico del “pericolo terrorista”: stranieri, anarchici, armi,
rapine, ecc. Ma non è nulla se paragonato a quello che sarebbe
successo in seguito, a livello nazionale.
La reazione degli anarchici di Rovereto e dei dintorni fu immediata ed
incondizionata. La loro solidarietà fu appassionata e a volte anche
giocosa. Attraverso manifesti, volantini, manifestazioni, incontri
pubblici, rivendicarono l’identità dei compagni arrestati, difendendo
la nostra identità in quanto anarchici all’interno di un’articolata
denuncia del ruolo delle banche e affermando la validità della pratica
di svaligiarle.
Poco dopo il nostro arresto nacque il settimanale *Canenero*.[3] Penso
che sia giusto dire che anche se prima o poi la rivista sarebbe
comunque uscita, per varie ragioni il nostro arresto fu un elemento
catalizzatore che contribuì a farla nascere in quel momento. Le sue
pagine, attese con entusiasmo, ed il fatto di sapere che compagni a me
molto vicini stavano lavorando notte e giorno per farlo uscire, furono
una luce brillante che illuminò quel primo periodo in galera. Sono
successe molte altre cose, è difficile mettere tutto su carta. Fin
dall’inizio, anarchici venivano da tutta Italia ai processi, l’aula
era sempre piena e a volte c’erano troppi compagni perché tutti
potessero entrare.
Mi ricordo enormi “Baci” e A cerchiate scritte col rossetto su una
finestra che dava sulla sala, dopo che quelli che non erano stati
ammessi occuparono un edificio di fronte al tribunale e da lì
mandarono i loro saluti... la notizia che più di 150 bancomat della
zona erano stati bloccati con la colla ebbe il risultato che una delle
banche ritirò la richiesta di risarcimento nei nostri confronti... uno
striscione con gli auguri di compleanno, srotolato in aula quando una
delle udienze coincideva con il mio compleanno... Fuori dalla prigione
di Trento furono accesi bengala e sparati fuochi d’artificio, mentre
ci trovavamo lì per una delle udienze presso il tribunale locale, cosa
che causò la consegna a molti compagni di fogli di via. Quando ero
nella prigione di massima sicurezza di Vicenza, un buco schifoso, in
particolare la sezione femminile, per Capodanno i compagni
noleggiarono un pullman e improvvisarono una manifestazione con
bengala, striscioni e palloncini di vernice, un’azione non priva di
rischi, perché la prigione di Vicenza è vicina alla base militare
americana della NATO. Quando sono uscita, ho poi saputo che era tutto
andato bene e che erano poi andati tutti a fare festa fino al mattino
da qualche parte su per le montagne. Il giorno dopo un elicottero
della polizia fece la sua comparsa nel campo sportivo femminile, dove
rimase fino al giorno in cui fui trasferita al carcere di Opera,
vicino a Milano. Quella dimostrazione di affetto e di solidarietà
contribuì a farmi trasferire da quel posto disgustoso, senza bisogno
di fare ricorso a ossequiose “lettere al direttore della prigione” o
cose del genere.
Questi sono alcuni dei momenti che mi vengono in mente a proposito di
quel periodo iniziale. Più tardi, in seguito all’invenzione da parte
di una “ex militante” “pentita” di una fantomatica banda armata a cui
saremmo tutti appartenuti, molti compagni furono arrestati oppure
dovettero nascondersi per poter continuare la lotta. So che molti dei
compagni rimasti ebbero accese discussioni per mettersi d’accordo e
decidere cosa fare, ma non conosco quel periodo bene come quello
precedente.
Il fatto di leggere le vostre domande mi ha riportata indietro a quei
tempi non così lontani e ricordare la solidarietà mi riempie di
un’immensa emozione. È stato straordinario. Solo qualcuno che è
passato attraverso simili momenti può capire ciò di cui sto parlando
e, come potete vedere, non riesco a condensare la risposta a questa
domanda in poche linee, anche se tutto quello che ho menzionato non è
che una piccola parte di ciò che i compagni hanno fatto, giorno dopo
giorno, per anni.
Un comitato anarchico di difesa che era stato formato in precedenza
divenne molto attivo per trovarci gli avvocati, coordinare i
contributi derivanti dai benefit, ecc. e pubblicare regolarmente
notizie su tutta questa storia, che si stava sviluppando in un
complesso attacco repressivo contro una larga parte del movimento
anarchico.
Il compagno che spediva i vaglia fu accusato di essere il “tesoriere”
dell’organizzazione clandestina fantasma inventata dal PM Marini,
insieme con i ROS, e fu spiccato un mandato di cattura contro di lui.
Il compagno che maggiormente portava il peso dell’attività del
comitato fu invece accusato di aver falsificato una nota interna dei
ROS, che era stata mandata a Radio Black Out a Torino. Entrambi furono
poi assolti o videro le accuse cadere.
Durante tutte le varie fasi della repressione furono stampati migliaia
di manifesti e volantini in tutte le principali città e anche nei
piccoli centri, dovunque fossero presenti anarchici che volevano
dimostrare la loro solidarietà.
Da una semplice questione riguardante pochi compagni presi “con le
mani nel sacco”, sulla quale non c'era molto da dire, la faccenda si
sviluppò fino a coinvolgere una sessantina di anarchici accusati di
appartenenza a un’organizzazione clandestina, insurrezione contro lo
Stato, ecc. con pene richieste che arrivavano all'ergastolo.
Tutto si basava sulla “confessione” della fidanzata ventunenne di
Carlo, uno dei compagni arrestati insieme a me, che i ROS (Reparto
Operazioni Speciali dei Carabinieri) individuarono come una persona
giovane e potenzialmente impressionabile che poteva essere spinta a
collaborare con la polizia e la giustizia. La ragazza dichiarò di aver
fatto parte della “banda” e di aver partecipato a una rapina nella
zona di Trento. La maniera in cui la storia fu costruita era così
assurda da fare quasi ridere, ma le cose cominciarono a mettersi male
– ci furono centinaia di perquisizioni in tutta Italia e molti
compagni finirono in prigione, alcuni fecero degli scioperi della fame
e furono rilasciati. Ci fu una vasta denuncia di questa montatura
contro gli anarchici, che aveva anche attirato l'attenzione della
stampa: incontri infiniti, attacchi contro la stampa, gli ingressi
della metropolitana incollati il primo giorno del processo Marini,
manifestazioni, mostre itineranti, ecc. ecc.
Oltre agli arresti, venivano completamente distorti i metodi anarchici
e furono quindi stampate e distribuiti in tutto il paese decine di
migliaia di opuscoli che denunciavano tutto ciò. Ci furono molte
azioni e volantini e i manifesti venivano ora stampati a livello
nazionale, in seguito a numerosissimi incontri fra gruppi ed individui
di ogni parte del paese. Ci furono interventi regolari sulle radio
libere. Azioni di solidarietà si verificarono anche in Germania,
Grecia e Spagna. Una compagna tedesca fece uscire una pubblicazione
bilingue, traducendo molti testi italiani - voglio dire testi teorici,
non solo legati alla repressione - e organizzò benefit e incontri. Mi
è anche stata molto vicina, in molti modi, negli anni in cui sono
stata dentro. Ricevevo anche molte lettere, telegrammi, cartoline, che
trasmettevano auguri, passione, colore, solidarietà da parte di
compagni di molti paesi, incluso il Regno Unito.
*Puoi parlarci della tua esperienza in carcere, delle condizioni,
delle possibilità di rivolta, ecc.? Com’erano le tue relazioni con le
altre detenute?*
Un’altra storia lunga... da dove cominciare? Beh, tanto per cominciare
in quegli anni non si trattò di un carcere, ma di sette, e passai la
maggior parte del tempo sballottata su e giù fra Milano ed il
Trentino, ammanettata in un furgone cellulare, sbirciando attraverso i
fori nella finestra di metallo per cogliere uno spicchio delle
montagne o dei frutteti in fiore, mentre il processo di Trento seguiva
il suo corso perverso. Le condizioni cambiavano enormemente da un
carcere all’altro e dipendevano da fattori specifici ad ognuno di
essi. Ci sono però alcuni aspetti che sono tipici di ogni carcere
femminile: sono molto più piccoli rispetto a quelli maschili e spesso
hanno meno strutture per scopi educativi o ricreativi, a volte
nessuna.
La prima cosa a colpirmi e infastidirmi era che ero sola, cioè ero
tenuta separata dalle mie compagne di detenzione che nella maggior
parte dei casi dividevano la cella con altre detenute, avendo così
ampie possibilità di parlare, ridere e, più in generale, affrontare
insieme alla situazione. Eva ed io eravamo tenute separate e per
fortuna lei è stata liberata dopo un mese o giù di lì dal nostro
arresto. Mi ero già trovata in situazioni simili in passato, quindi
conoscevo l’andazzo e mi feci forza. La solidarietà dall’esterno, di
cui ho parlato a lungo, certo nutriva quella forza, ma c’erano molte
cose che succedevano all’interno e tutt’intorno a me di cui avrei
voluto discutere con i miei compagni, e ciò era
impossibile. Voglio dire, anche a proposito di cose banali del carcere
– e quasi tutto è banale, ma a volte può essere pesante. Gli
spostamenti d’aria dei proverbiali “battiti d'ali di una farfalla”
possono provocare in ogni istante delle tempeste, come un boomerang
d’acciaio, e anche i propri pensieri sembrano prendere (o forse in
ogni caso ce l'avevano già) una certa capacità di agire sulla realtà.
Penso che il semplice fatto di rimanere in vita, conservando la
propria individualità e tenendo il morale – e la testa – alto sia in
sé una forma di ribellione, nel contesto di un’istituzione che è
deliberatamente costruita per schiacciare le persone ed umiliarle. Le
cose allora erano molto diverse rispetto a com’erano state in Italia
negli anni ’70 e ’80, quando c’erano migliaia di compagni in prigione,
spesso rinchiusi in carceri di massima sicurezza costruiti apposta per
loro. La ribellione era una costante, una necessità e una
continuazione della lotta all’esterno, prendendone quasi il posto,
prima del dietrofront della maggior parte dei leader
marxisti-leninisti.
Oggi, specialmente se donna, puoi trovarti ad essere veramente in
poche, dentro, per una qualunque di un gran numero di ragioni (ancor
meglio – gli anarchici non si dichiarano prigionieri politici e se
finiscono nelle “ali per prigionieri politici” è perché lo Stato li
mette là per impedire che “infettino” gli altri prigionieri). In
effetti in alcune delle piccole prigioni in cui sono stata rinchiusa,
a cominciare da quella di Rovereto, sono stata tenuta separata dalle
altre detenute per quanto lo spazio limitato lo consentisse. I
secondini non erano abituati a vedere i volantini che arrivavano con
la posta, le loro mani tremavano, letteralmente, venendone a contatto
e io venivo trasferita il prima possibile.
L’unica cosa che ricordo della prigione di Trento è un terremoto, una
notte durante la quale passai l’ora successiva o giù di lì a cercare
di decidere cosa fare nel caso di un'altra scossa, finché non mi
addormentai. Non tutti gli incidenti di questo tipo hanno un esito
felice: 8 prigioniere (e due secondine) morirono intrappolate
nell’incendio scoppiato nel carcere delle Vallette a Torino nel 1986.
I racconti dei prigionieri di New Orleans gelano il sangue nelle
vene, solo per fare un esempio. Non dobbiamo mai dimenticare che, al
di là degli aneddoti e dei ricordi, la prigione consiste in tantissime
scatole rinforzate in cui milioni di persone in tutto il mondo sono
rinchiuse giorno e notte. Sono ostaggi dello Stato e vivono 24 ore al
giorno alla mercé di una gerarchia di vili codardi.
Quando l'ala femminile del carcere di Trento venne chiusa fui spedita
a Vicenza, esperienza di cui ho parlato prima. La sezione femminile
consisteva in due file di celle le une di fronte alle altre. Al
mattino le pesanti porte d’acciaio venivano aperte, lasciando chiusa
una seconda porta a sbarre. E quella era la “condizione di detenzione”
per il resto della giornata. Ragazze pallide e magre passavano tutta
la giornata nel letto, perché, anche se c’era un cortile, fuori faceva
un freddo gelido (Vicenza è in montagna). L’ora d’aria è stabilita da
un atto parlamentare, ma non c’è scritto da nessuna parte una "durata
minima". Due ore intere in un cortile gigante in cemento, freddo,
gelato, senza niente da fare, erano troppe per la maggior parte delle
detenute e così i secondini erano contenti di risparmiarsi il lavoro
di aprire e chiudere un numero X di cancelli.
Cominciò così la battaglia, prima nel modo “buono”, facendo presente
la situazione al personale medico, scrivendo appelli collettivi al
direttore, ecc. senza alcun esito. Era molto difficile parlare con le
altre prigioniere perché, a parte l'ora d'aria in cortile, c’erano
solo un paio d’ore di “socialità” al giorno, a cui bisognava
iscriversi in anticipo, mettendo il nome della detenuta che doveva
essere rinchiusa con te o che volevi “andare a trovare”.
Ciononostante, riuscimmo a metterci d’accordo di uscire in cortile il
giorno dopo e, per protesta, con l'intenzione di rifiutare di
rientrare alla fine delle due ore. Questo, nel contesto carcerario,
equivale all’insurrezione. Il giorno arrivò. La presenza, giù, dei
secondini della sezione maschile era la conferma che i piani
collettivi erano stati sventati. Poco tempo dopo (questo avvenne nel
periodo immediatamente successivo alla manifestazione di Capodanno),
la mia vicina di cella, C., ed io fummo fatte “sparire”: io nella
“sezione politica” di Opera, C. in un qualche sperduto carcere di
provincia. Tutto questo lungo racconto è solo per cercare di spiegare
come il semplice tentativo di ottenere un “diritto” basilare venga
considerato una pericolosa minaccia all’ordine e alla sottomissione.
Il fatto è che bisogna cercare di vedere il contesto di cui stiamo
parlando. Non entri in prigione dicendo: “wow, un mucchio di persone
rinchiuse, questo è un terreno fertile per la ribellione, andiamo!”.
Innanzitutto, la maggior parte della gente ha un sacco di problemi e
semplicemente non è interessata a sapere come tu ti definisci, e
personalmente non cercherei di farlo in altro modo che nella mia
maniera di relazionarmi nei loro confronti e nei confronti di quello
che ci circonda, anche se in alcuni carceri c’erano delle “politiche”
che erano a conoscenza del nostro caso. È una cosa diversa. Penso che,
nel corso normale degli eventi, quando sei in prigione il tuo compito
sia quello di riconoscere di essere prigioniero e continuare a vivere
la tua vita in condizioni “diverse” cercando di contribuire ad alzare
il tono di quella che spesso può essere una realtà abbastanza
squallida.
La maggior parte delle donne dentro sono in una situazione ben
peggiore della nostra. Molte hanno dei bambini, qualche volta a
migliaia di chilometri di distanza, e si preoccupano per loro tutto il
giorno. Noi siamo privilegiate, perché abbiamo compagni, solidarietà,
eccellenti avvocati che spesso sono anch’essi dei compagni.
Detto questo, è stata una bella esperienza incontrare così tante
persone differenti e pazze che non avrei mai incontrato altrimenti, a
causa di scelte personali e di tutti i ghetti in cui noi “feccia
dell’umanità” siamo divisi: zingare, drogate, “assassine”, “leader
storiche” di una volta, prostitute, piccole spacciatrici, ecc. Ho
vissuto momenti intensi e a volte divertenti. Non fraintendetemi: il
carcere non è stato “il miglior periodo della mia vita”. Ma quando un
certo numero di esseri umani molto particolari sono costretti, contro
la loro volontà, a coabitare, e riescono a stare assieme sulla base di
questo denominatore comune e a volte semplicemente ad essere sé
stessi, con le loro squisite idiosincrasie, avviene una specie di
strana alchimia che trascende ogni muro e diventa un vero momento di
libertà e una minaccia per lo *status quo* del carcere.
Certo, sarebbe stato meglio aver abbattuto per davvero quelle mura.
Molte di quelle donne sono ancora rinchiuse. Molte altre le hanno
raggiunte.
Mi avete chiesto della solidarietà e non posso concludere questo salto
nel passato senza parlare di un esempio indimenticabile di solidarietà
da parte delle altre detenute. Come ho detto, ricevevo molta posta che
non era ufficialmente censurata, fra cui la collezione completa di
*Canenero* ed una buona quantità di vecchi numeri della rivista
anarchica italiana *ProvocAzione*, che usciva negli anni ottanta. Ad
Opera, in seguito a una perquisizione di routine, queste riviste mi
furono portate via dalla cella, con poche deboli scuse come “rischio
d’incendio” o “ottenute illegalmente”, ecc. Era evidentemente il loro
contenuto a non essere per niente apprezzato da quelli che vi si erano
imbattuti. Ero furiosa e chiesi che mi fossero restituite le mie
riviste.
Chiunque sia stato in carcere sa che non vi è un qualcosa come
“domanda e risposta” e che anche la richiesta più insignificante, come
il permesso di comprare un paio di calzini, deve passare per un iter
che può richiedere settimane. Io non volevo aspettare e, per farla
breve, finii con l’improvvisare una protesta col semplice rifiuto di
rientrare dal cortile ed essere rinchiusa in cella dopo la
passeggiata. Il risultato immediato di ciò fu che riuscii ad ottenere
un colloquio col maresciallo della prigione per uomini; alla fine mi
furono restituite le riviste e l’odiato caposecondino in carica alla
sezione femminile sparì dalla circolazione per qualche settimana, un
sollievo per tutte. Il secondo risultato fu che il lunedì mattina fui
scortata in una specie di “tribunale interno”, presieduto dal
direttore della prigione e alla presenza di secondini, sbirri,
psicologi, ecc.
Il verdetto: colpevole di insubordinazione. La punizione: due
settimane nella cella di rigore. Ciò fu uno shock per tutte nella
sezione, anche per quelle che erano dentro da quasi vent’anni. Le rare
punizioni, ad Opera, erano di 2 o 3 giorni. Dopo essere stata
controllata dal medico che certificò che potevo sopportare la sentenza
(il medico ha sempre l’ultima parola, anche nel braccio della
morte...), fui portata giù ai blocchi d’isolamento, per esservi
rinchiusa 22 ore al giorno, con i soli oggetti essenziali: le mie
riviste anarchiche (mi assicurai di averle), un paio di libri, un
dizionario ed una piccola radio.
Alcuni secondini furono incaricati di star seduti dall’altro lato del
blindo e scrutarmi attraverso lo spioncino e farmi uscire per la
passeggiata, in un giardinetto piccolo e squallido, un’ora al mattino
ed una al pomeriggio. Chiunque mi avesse parlato avrebbe ricevuto una
punizione simile. Dopo aver passato la maggior parte della notte in
una guerra contro le zanzare (era metà agosto, con 40 gradi) mi
svegliai al rumore di un numero rap proprio davanti alla mia finestra.
Sbirciando fuori potei vedere le ragazze che lavoravano nel giardino
di sotto che ballavano in fila fra le piante, rappando. Che figata!
Poi, quando uscii per l’aria, tutte le donne della sezione erano alle
finestre cantando a squarciagola un intero repertorio di canzoni
d’amore e di lotta. Il casino era tale che i secondini dovettero
portarmi via da quello sporco cortiletto, verso i campi sportivi, per
la passeggiata due volte al giorno.
Per il resto basti dire che per tutta la durata dell’isolamento tutto
il cibo del carcere finiva nel cesso, visto che ricevevo un
rifornimento costante di cibo fresco, caffè caldo, ecc., grazie
all’astuzia e alla creatività di cui solo chi è rinchiuso suo malgrado
è capace, sotto il naso delle spie in uniforme fuori dalla cella e
dalle guardie armate che fanno la ronda intorno alle mura. Finite le
due settimane ci fu una grande festa nella sezione!
*Una volta uscita dal carcere, come ti sei sentita a “ritornare” nella
“società”?*
Società? E che cos’è? Penso che fin dal giorno dalla mia nascita ho
sempre vissuto la società come una morsa d’acciaio. Le prime due
settimane all’asilo dovettero chiudermi a chiave in classe. Forse il
momento in cui sono stata più vicina all’essere “nella” società è
stato in carcere. Non puoi sfuggire a questo stato di cose, a meno
che, come dicevo, non ti dichiari “prigioniero di guerra” e passi il
resto della tua condanna da solo con uno status speciale. La prigione
è un microcosmo del mondo fuori, una specie di caricatura in cui sei
incastrato, senza un posto in cui nasconderti, e così vieni
socializzato in una certa misura, che ti piaccia o no, per il bene
degli altri detenuti e per fare qualcosa del tuo tempo. Ma sempre
entro limiti ben precisi. Come la società fuori, la prigione ha un
effetto polarizzante: segrega ed esclude i ribelli e spinge altri
detenuti verso l’integrazione e la partecipazione alla propria
prigionia. I momenti in cui mi sono trovata a qualche centimetro da
questa oppressione partecipativa sono stati per me i peggiori ed il
tipo di realtà verso cui essa tende mi riempie di disgusto. Ti
piacerebbe sputare in un occhio alla secondina e dirle di levarsi quel
sorriso dalla faccia, quando viene ad aprirti il blindo al mattino, ma
puoi anche finire dicendole “buongiorno”. Di recente un compagno
italiano mi ha raccontato che quando era in carcere l’anno scorso
c’erano dei vecchi militanti delle Brigate Rosse che chiamavano sempre
i secondini “stronzo” o “pezzo di merda” e quanto gli altri detenuti
li invidiassero per questo. Se loro ci avessero provato, sarebbero
finiti neri di lividi e con qualche costola rotta.
In generale, devi imparare a contenere il tuo disgusto per l’intero
baraccone. Una volta uscita restai ai domiciliari per un bel po’, poi
tornai a Londra, visto che avevo un’altra piccola condanna pendente in
Italia per un furto d’auto legato alla rapina. Scivolai pian piano
nella mia vita ghettizzata qui. Senza orgoglio, devo dirlo, perché una
tale vita è piena di compromessi, come ogni altra. Non c’è nessuna
vera lotta qui, nessuna tensione nel senso di attaccare ciò che
opprime te e tutti intorno a te. Puoi diventare un attivista frenetico
oppure puoi utilizzare il tuo tempo per cercare di riflettere sulla
situazione, “socializzarti” in qualche modo con l’ambiente che ti
circonda e continuare ad andare avanti meglio che puoi con la tua
progettualità, sempre nell’ottica di cercare delle affinità e degli
sbocchi per la lotta così come vuoi portarla avanti. Così, anche in
questa prigione a cielo aperto, sei un disadattato, un marginale che
interpreta un ruolo e rispetta le “regole della società”.
*L’Italia ha una lunga storia insurrezionale, sia per quanto riguarda
i tempi recenti, sia per quelli più lontani. Puoi parlarci delle lotte
sociali a cui hai partecipato laggiù?*
In Italia, negli anni ’70 e ’80, anche se c’era un proliferare di
organizzazioni clandestine che avevano dichiarato guerra allo Stato,
c’era anche un movimento insurrezionale diffuso e ciò era sicuramente
eccitante, era nell’aria che respiravi, attorno a te. C'erano numerosi
casi di occupazioni di massa di case, di università, di rifiuto di
pagare biglietti, viaggi del bus, pasti, ecc. In città coma Bologna
c’erano centinaia di giovani che semplicemente si rifiutavano di
pagare. Venivano compiute molte piccole azioni di attacco da parte di
individui o di gruppi molto piccoli, senza tutta la retorica delle
organizzazioni armate, e ciò ebbe un profondo effetto sulla parte del
movimento anarchico che spingeva in quella direzione. C’era sempre un
forte senso della progettualità e dell’essere parte della lotta per la
libertà insieme ad altri compagni all’interno di questo movimento
informale.
Ciò si sviluppò in quello che alcuni anarchici chiamano il “metodo
insurrezionale” della lotta. Questa interpretazione, basata su una
precisa ipotesi organizzativa, cerca di arrivare a una partecipazione
delle masse, accanto agli anarchici, contro un obiettivo definito.
Questo richiede un impegno costante nella lotta per un certo periodo
di tempo. Non si tratta di un piccolo gruppo di anarchici che decide
di attaccare un particolare aspetto del potere, ma di un tentativo di
coinvolgere un grande numero di persone che si autoorganizzano in un
proliferare di organismi di base, nuclei, leghe o comunque decidano di
chiamarsi, e attaccare l’obiettivo tutti assieme. L'idea di questo
modo di organizzarsi è prevenire l'instaurazione di gerarchie,
estendere e moltiplicare l'orizzontalità e fare in modo che, una volta
in vista dell'obiettivo, gli individui coinvolti sperimentino un
cambiamento qualitativo nel loro rapporto con il potere (assenza di
delega, decisioni prese in prima persona, creatività, ecc.), la lotta
possa anche andare oltre l’obiettivo.
Ho avuto la fortuna di vivere un’esperienza di questo tipo, anche se
il risultato finale non fu poi quello che tutti desideravano e per il
quale lavorammo duro, ma ciò non importa. Il periodo sono gli anni
’80, il luogo Comiso, in Sicilia, dove vivevo in quel periodo. Gli
Americani avevano deciso di collocare alcuni missili Cruise in quella
base militare e a livello locale ciò provocò un ampio dissenso.
Manifestanti anti-nucleare, il Partito Comunista, il Partito
Socialista, i Verdi, ecc. tutti protestavano con grandi manifestazioni
o con picchetti pacifici davanti alla base. Gli anarchici del posto
decisero di smarcarsi da questo circo e agire nel senso di una lotta
che doveva durare nel tempo, nella logica di una ribellione di massa.
L’essenza della lotta anarchica sta nei mezzi utilizzati, non nei
risultati.
Stilammo volantini che analizzavano le ragioni, non solo militari, ma
anche sociali ed economiche, spiegando che la sola risposta seria a
una tale progetto di morte era occupare la base e distruggerla e ne
stampammo migliaia di copie su un vecchio ciclostile a mano, usando
matrici che ci avevano dato alcuni compagni di *Class War* in
Inghilterra. Nessuno aveva somme di denaro significative e quando
cominciammo era tutto improvvisato. Riuscimmo a mettere insieme un
sistema di amplificazione e andavamo in giro tenendo (di solito
Alfredo [Bonanno]) combattivi ed inequivocabili comizi nelle piazze
dei villaggi circostanti, a cui partecipava la maggior parte della
popolazione maschile del luogo. Producemmo volantini indirizzati alle
donne e andando per le case a distribuirli, improvvisando capannelli
con alcune di loro. Producemmo volantini indirizzati agli operai della
raffineria Anic (che, quando la DIGOS ci arrestò, rifiutarono di
tornare al lavoro finché non fummo liberati) e agli studenti, che
distribuivamo davanti alle scuole. Alcuni ragazzi si rifiutarono di
entrare a scuola e partirono in corteo riempiendo una delle piazze. Fu
allora che vidi come il potere lavora realmente a livello locale: il
capo del PCI venne a bussare alla nostra porta, proponendoci di
“lavorare insieme”. Inutile dire che non fu il benvenuto.
In quel periodo ci avevano prestato una vecchia casetta, visto che
alcuni di noi vivevano a più di 100 km di distanza. I comizi, i
volantinaggi, i manifesti, ecc. avevano fatto sì che alcune persone di
provenienza e percorsi di vita differenti (studenti, camionisti,
braccianti) si trovassero d’accordo con la necessità di distruggere la
base e formarono “organizzazioni di base” minime a cui diedero il nome
di leghe, in mancanza di una parola migliore. Queste leghe, che spesso
consistevano di due o tre persone, ma che avevano la possibilità di
espandersi e moltiplicarsi visto che la lotta si intensificava,
iniziavano ad avere bisogno di un luogo che fungesse da punto di
riferimento e di coordinamento, per esempio per potersi riunire,
scrivere e stampare volantini, ecc. A questo scopo fu affittato un
piccolo locale a Comiso a cui si faceva riferimento come al
“Coordinamento” delle leghe autogestite contro la base missilistica di
Comiso. Erano queste le persone che avevano davvero la possibilità di
distruggere la base – con i loro colleghi, vicini, famiglie, bestiame,
trattori, scavatrici, ecc. Questo era il sogno.
A parte la repressione pura e semplice c’era però una combinazione di
ostacoli, inclusa la mafia locale. Una notte, due individui a volto
coperto irruppero a casa nostra armati di fucile e spararono un colpo
che trapassò i pantaloni di Alfredo. Poi c’era il Partito Comunista,
che come da copione svolgeva il suo ruolo di pompiere e, ultimo ma non
per questo meno importante, lo stesso movimento anarchico ed i nostri
propri limiti. Non è possibile adesso entrare in tutti i dettagli di
quella lotta, ma guardando indietro penso che si dovrebbe fare un
resoconto di quel tentativo, che fu un’esperienza molto reale con un
forte aspetto sperimentale e teorico e quindi patrimonio di tutti.
*Il progetto editoriale a cui partecipi* – Elephant Editions – *è
noto per essere il principale traduttore di Alfredo Maria Bonanno e
altri anarchici “insurrezionalisti”. Anche se non vogliamo alimentare
o creare alcun culto della personalità, puoi spiegare perché le idee
di Alfredo e degli altri autori che pubblicate sono importanti per la
lotta per abbattere le condizioni che ci opprimono?*
Come prima cosa stiamo parlando di idee, merce abbastanza rara di
questi tempi. Idee con una carica sovversiva, che incontrano e
stimolano altre idee che ci portano fuori dalla palude di opinioni e
tolleranza e ci aiutano a raggiungere la lucidità necessaria per agire
sulla realtà che ci opprime e trasformarla. Devo dire che non mi sono
mai avvicinata a nessuno dei testi che ho tradotto e poi pubblicato
altrimenti che per la semplice ragione egoistica di voler entrare nel
dibattito e chiarirmi delle idee. Quando alla fine (dopo un lungo
travaglio) un testo diventa un qualcosa di tangibile in inglese,
voglio che anche altri lo leggano. Per alcune (non molte) persone
leggere testi del genere è un’esperienza nuova, una scoperta di sé
stessi provocata dall'incontro con idee messe per iscritto con una
certa chiarezza. Le tensioni che già sentiamo bruciare in noi
diventano più chiare, è più facile coglierle ed assimilarle con il
fine di agire. Così il testo prende vita propria, fa la sua strada nel
contesto della lotta, contribuisce a dare ai compagni che lo
desiderano uno strumento per riconoscere e valorizzare le proprie idee
e i propri sogni, trasformandoli in un elemento di forza nella vita e
nella lotta. Il testo diventa quindi sia un’esperienza soggettiva, sia
una “cosa” fisica che, attraverso le vicissitudini del suo viaggio
attraverso lo spazio sociale e ideale, diventa un elemento che crea
relazioni informali fra singoli compagni. Oltre a tutto ciò, abbiamo
bisogno di analisi sull'economia, le nuove tecnologie, i nuovi aspetti
del potere e della lotta, i nuovi nemici e i falsi amici. E,
diciamocelo, molti di noi sono pigri o mancano di metodo quando si
tratta di acquisire delle conoscenze. Senza idee, analisi e
progettualità non siamo nulla, mere astrazioni, costruiamo castelli in
aria, con l’aria stantia delle strutture formali e della loro
ossessione organizzativa. Comunque, la struttura della lingua
italiana, e in particolare di questi testi, è completamente diversa
dall’inglese; mi serve sempre molto tempo per renderli in qualche modo
leggibili e per seguire l’argomentazione. È un po' un viaggio, in
particolare quando quei compagni che ho tradotto, Alfredo e altri,
sono i miei compagni di lotta, abbiamo vissuto l’esperienza pratica di
queste idee che provengono dallo sviluppo del movimento nel corso dei
passati decenni. Credo che queste idee, o teorie, siano un contributo
importante alla lotta oggi, perché arrivano da quella parte del
movimento che non fa riferimento ad alcuna organizzazione fissa o
struttura formale e vuole attaccare direttamente l’oppressione in
tutte le sue forme.
In effetti, l’attacco e la teoria dell’attacco, che per gli anarchici
sono la stessa cosa, sono l’elemento essenziale del movimento
informale, senza il quale esso esisterebbe solamente di nome. Vi è
perciò anche un forte elemento critico in questi scritti, una critica
dell’organizzazione anarchica stabile, come il sindacalismo oppure le
federazioni basate sui numeri, limitata e anacronistica per quanto
riguarda l'attacco. Allo stesso tempo vi è una critica
dell’organizzazione clandestina e dell’“attacco al cuore dello Stato”,
che era di gran lunga prevalente negli anni ’70, in modo particolare
in Italia. La maggior parte di queste organizzazioni erano di matrice
marxista-leninista, ma alcuni anarchici provarono a realizzare
l’impossibile, creandone una versione “anarchica” che finì col cadere
nelle contraddizioni di ogni istituzione clandestina stabile. Credo
anche che molti anarchici all'epoca sentissero una pressione
considerevole che li spingeva a creare tale organizzazione, al fine di
essere “nella realtà della lotta”. Le teorie di cui stiamo parlando
valorizzano invece la formazione di piccoli gruppi, non appesantiti da
preconcetti ideologici, che agiscono direttamente sulla realtà, senza
alcun senso del sacrificio, ma per ottenere immediatamente il proprio
piacere e la propria libertà, nel quadro della libertà di tutti.
Un’altra componente essenziale degli scritti di cui stiamo parlando è
l’analisi dei profondi cambiamenti che sono avvenuti negli ultimi tre
o quattro decenni e hanno influenzato in tutto il mondo la maniera in
cui funziona lo sfruttamento e la lotta contro di esso. Le “nuove
tecnologie”, che oggi molti giovani compagni vivono come normali,
hanno infatti cambiato il modo in cui il funziona il mondo.
L’intero impianto della produzione, incluso quella del cibo,
l’estrazione di combustibile, ecc., si sono spostati dall’Europa
all’Asia e all’Oriente, secondo un colossale progetto di
ristrutturazione che in alcuni paesi ha incontrato una ribellione
giunta quasi al punto di insurrezione generalizzata. A ciò è seguito
un cambiamento radicale delle esigenze educative del sistema e un
diffuso appiattimento culturale, privilegiando infinite catene di dati
che non ci portano da nessuna parte.
Bisogna aggiungere che una volta che certi testi esistono in inglese,
ahimè la lingua del nuovo ordine mondiale, vengono tradotti nella
propria lingua da anarchici di altre parti del mondo che vi hanno
trovato qualcosa di interessante, e questa è una delle cose che mi ha
fatto maggiormente piacere in tutta questa impresa.
Ancora due parole sul concetto di “culto della personalità”, visto che
ne avete parlato. Penso che in generale questo concetto sia estraneo
agli anarchici. Gli anarchici vengono giudicati dagli altri compagni
in base a ciò che essi dicono e fanno e la coerenza fra questi due
fattori, non attraverso diatribe a proposito delle loro qualità
personali, vero o inventate, come avviene in organizzazioni che si
basano su leader carismatici o cose simili, come in Russia dopo la
presa del potere da parte dei bolscevichi. Anzi, si tratta del
contrario. A volte ci sono attacchi personali che prendono il posto
della critica dei metodi esposti da certi compagni, quando alcuni
settori del movimento trovano che il loro *status quo* sia minacciato
da tali metodi. Ciò è più facile che attaccare le idee in sé ed
opporre altre idee che possano essere più efficaci, chissà? Ma, come
ho già detto, non è questa una caratteristica autentica degli
anarchici che per definizione negano il concetto di leader e allo
stesso tempo esaltano l’individuo, ogni individuo, in una dimensione
di eguaglianza.
[1] Si tratta di altre due rapine in banca avvenute a Ravina il 20
luglio 1994.
[2] Per quanto riguarda il processo contro molti compagni anarchici,
orchestrato dal PM Antonio Marini con l’aiuto dei ROS e della
“pentita” Mojdeh Namsetchi, e finito con condanne pesantissime.
[3] Canenero, settimanale anarchico; uscì dal 28 ottobre 1994 al 17
gennaio 1997. Ne furono pubblicati 45 numeri (più un’edizione
“speciale repressione” dal titolo “Incontrollabili”, del
gennaio/marzo ’97).