f-i-francia-il-mio-anarchismo-it-1.png

“Individui innanzitutto. Le definizioni, quando non sono gabbie, sono come dei sassi lanciati nell’acqua: creano cerchi sempre più ampi, ma nessuno di questi riesce a contenere completamente la nostra individualità. Coscienti di questo, le parole non ci fanno paura. Perché siamo anarchici?“ – Adesso, n°19, 2004

L’anarchismo è un’attitudine individuale di fronte alla vita, non una teoria sociale, né un’ideologia politica o un’identità. In ogni caso è così che la vedo io e quello che segue non è quindi altro che una visione personale, una descrizione del mio anarchismo.

L’anarchismo non è un’agenzia di viaggi che proporrebbe delle destinazioni meravigliose a clienti che hanno semplicemente voglia di un breve momento di svago. Non c’è nulla da migliorare né da ideologizzare in questo basso mondo. L’anarchismo non può riempire il vuoto che sentono molte persone a causa di questa società alienante, esso non ha nulla da proporre a quelli/quelle che hanno bisogno di un’autorità che li/le guidi, che dica loro cosa pensare, come vivere, cosa fare della loro vita.
Questa società è popolata da gente normale (che accetta e si adatta alle norme) che non chiede di meglio che seguire tranquillamente il cammino che è stato tracciato per lei. Anche i delinquenti, truffatori di ogni sorta, vivono all’interno dei parametri della mentalità autoritaria e capitalista e, se violano la legge e non rispettano le regole del gioco, è solo perché non hanno avuto l’opportunità di riuscire a seguirle e/o perché vogliono imporre le loro (la “mala” è piena di infami, traditori, aspiranti capiclan ed altre schifezze, che, benché commettano degli atti che anche degli anarchici possono commettere, sarebbero piuttosto dei nemici). La maggior parte di quelli che partecipano a questa tanto fantasmata “guerra sociale” non hanno alcuna intenzione di adottare delle idee anarchiche, che non favorirebbero i loro sogni di consumatori ed aspiranti capi. Riderebbero in faccia a quei missionari che recitano il loro vangelo dall’alto dei loro scranni, parlando, nella loro neolingua, di “Affinità”, di “Prospettive”, di “Progettualità” (parole che cambiano di senso nelle loro bocche), attribuendo loro delle intenzioni che non hanno mai avuto. Andate a fare casino la sera tardi in una zona di spaccio e la vedrete la faccia di questa meravigliosa “guerra sociale”.
Dicendo questo, non sostengo che i cosiddetti “delinquenti” siano per forza dei nemici (o degli idioti). No, penso che, come ovunque nella società, vi si trovino degli individui che vale la pena incontrare e con i quali si potrebbero avere delle complicità interessanti. Ma non più che altrove, e questo deve essere valutato caso per caso, individualmente, indipendentemente da ogni categorizzazione o essenzialismo.

Il mio anarchismo si fonda sulla responsabilità individuale, rendendosi conto dei diversi gradi d’implicazione che operano in questa società.
Secondo me, uno/a anarchico/a dovrebbe essere capace di desiderare, di decidere, di agire per conto suo e di prendersi le proprie responsabilità di fronte alle proprie contraddizioni (che sono inevitabili, vivendo in questa società). Il mio anarchismo non si basa su di un sistema morale, una teoria insuperabile, un’astrazione sociale che sta al di sopra di me. Il mio anarchismo attacca tutti i sistemi, compresi quelli identitari ed ideologici, che sono un ostacolo al mio sviluppo in quanto individuo. Il mio anarchismo è una tensione quotidiana, un sentiero irto d’ostacoli il cui esito non è scritto. Il mio anarchismo si basa sulla Mia vita, che rifiuta di far parte di un insieme più vasto, di un “tutto” a cui dovrei adattarmi, rinnegando quello che sono, per poter esistere, essere tollerata. Ed ecco un punto importante, non ho bisogno di essere riconosciuta in un “movimento” ed avere il mio posto in un gruppo per avere un motivo per sviluppare e sostenere le mie idee. Non ho bisogno dell’accordo di nessuno per fare quello che faccio. “L’uomo più forte del mondo è quello che è più solo” (Ibsen).

Se l’anarchismo è stato portato, il più delle volte, da una minoranza d’individui, non è la volontà degli anarchici di essere minoritari, ma è la realtà. Vorremmo tutti che dei miliardi di persone decidano di vivere secondo i diversi principi anarchici, battersi per questi, sperimentarli, rifiutare ogni autorità. Ma poiché non voglio né decidere né agire al posto di altri, preferisco abbandonare l’idea di aspettarli.
“Chi ha abbattuto una delle sue barriere, può con ciò additare agli altri la via ed i mezzi; l’abbattere gli ostacoli che gli si attraversano è compito di ognuno per se stesso” (Stirner).

Nonostante i tentativi disperati di alcuni, l’anarchismo non sarà mai qualcosa di accettabile per la massa dei consumatori.

Non so cos’è che potrebbe funzionare, nessuno lo sa. Come si dice in inglese, “The Future is Unwritten” [il futuro non è scritto; NdT]. Essere anarchici vuol dire provare e riprovare, cercare di coincidere il più possibile con le proprie attese personali, nel continuo tentativo di non farsi prendere in logiche di potere più grandi di noi, che purtroppo fanno parte di ciò che abbiamo sempre conosciuto in questo mondo. Le così comode gabbie ideologiche non sono fatte per me, perché io sono complessa, molteplice, diversa, “nessun concetto mi esprime, niente di quanto viene indicato come mia essenza mi esaurisce: sono solo nomi” [Stirner].

Per quanto riguarda la dicotomia fra “anarchico gentile” e “anarchico cattivo”, pur non avendo alcun senso, essa serve gli interessi del potere, tanto più che gli anarchici non hanno bisogno di giustificarsi di fronte ai media e alla Giustizia. Essere tollerati dai nostri nemici sarebbe la più grossa sconfitta che potremmo subire.
Penso che dobbiamo rimanere uniti, fra anarchici, nonostante le nostre divergenze, poiché, lo sappiamo, le nostre idee non saranno mai popolari. Screditarsi reciprocamente, fra differenti correnti dell’anarchismo, darci coltellate nella schiena per delle guerre di potere o per altri motivi, è di certo l’attività che consuma la maggiore energia e che finisce per disgustarne parecchi. La diversità dell’anarchismo, nella sua teoria e nella sua pratica, è ciò che ne fa la ricchezza. Che alcuni tengano delle biblioteche, mentre altri occupano foreste, oppure sperimentano costruendo case o facendo orti, che altri cerchino di sviluppare delle idee su internet e altri su carta, facciano della storiografia, della filosofia, delle traduzioni oppure della poesia, che altri ancora (oppure le stesse persone) attacchino il potere, con o senza comunicati di rivendicazione, tutto ciò è bene finché ognuno è cosciente dei limiti di queste attività e cerca di fare meno compromessi possibile con il potere. Non c’è UN modo di vivere le proprie idee anarchiche, non c’è UN metodo. E se l’azione diretta, i diversi attacchi, non devono essere considerati come l’unica maniera di essere anarchici, non bisognerebbe neppure metterli da parte (insieme ai loro autori) per paura della repressione, che arriverà se deve arrivare, poiché non abbiamo l’intenzione di fissare la sfera magica per tutta la vita e sappiamo che a volte la Giustizia funziona in maniera casuale e che perciò nessuno può prevedere in anticipo le perquisizioni e gli anni di galera.

L’anarchismo è nato in un contesto di violenza, di azioni dirette, di assassinî di monarchi e di dirigenti. Tutto ciò fa parte dell’anarchismo, checché ne pensino i più pacifisti o i più timorosi. Assumersi le proprie idee, in ogni maniera, è il minimo che possano fare gli anarchici. E questo passa attraverso il fatto di smettere di aver paura di essere anarchici, di nascondere degli opuscoli teorici per paura della repressione, di fare in modo di fare critiche ben visibili quando ci sono degli attacchi là dove si vive, di nascondere le proprie idee nella vita quotidiana. In due parole, smettere di portare una maschera, quella del tipo/a qualunque, per paura di diventare un bersaglio del potere (anche se, per alcuni, la maschera è piuttosto quella del grande Anarchico, maschera che sono poi pronti a togliersi non appena i problemi si fanno intravvedere). Che senso ha dirsi anarchici se si prova vergogna, se lo si nasconde? Come guardarsi allo specchio quando si ha rinnegato pubblicamente quello che si diceva difendere? Si sarebbe anarchici a casa propria (e ancora…), ma si smetterebbe fuori, per non attirarsi problemi, come adolescenti che disegnano di nascosto delle A cerchiate, pur restando dei buoni studenti obbedienti? Ma quando si diffondono queste idee, ci sono delle persone che prendono sul serio quello che diciamo. Dobbiamo quindi prenderci le nostre responsabilità, essere intransigenti con noi stessi/e prima di esserlo con gli altri. Le nostre idee hanno delle conseguenze e, qualunque cosa facciamo, ogni persona che contribuisca alla diffusione delle idee anarchiche dovrebbe aver riflettuto a queste conseguenze, per essere pronta ad affrontarle quando necessario.

Rosa Blat,
marzo 2018


(tradotto da guerresociale)