Titolo: Carcere di Korydallos – Atene [Grecia]: Lettera dell’anarchico Giorgos Karagiannidis sullo sciopero della fame (12/2015)
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Lo sciopero della fame cela la sua importanza. L’importanza che proviene dalla combinazione dell’indebolimento fisico e debilitazione degli scioperanti, e dalle azioni/reazioni che si creano. Questi due fattori sono di solito (ma non per forza sempre) connessi.

L’incisività nascosta nell’atto di sciopero della fame crea delle sezioni sia nel nostro ambiente, che tra i detentori dell’autorità statale. Il principale obiettivo dei ogni sciopero è la creazione di flussi nel terreno sociale. Fino ad oggi, in Grecia, la gestione statale degli scioperi della fame è stata relativamente “indolore” (in confronto agli esempi che hanno scritto la storia degli scioperi della fame). Gli scioperanti hanno raramente raggiunto dei veri limiti critici, anche se questo, ovviamente, non rappresenta nessun tipo di garanzia per i futuri scioperi. Questo prevenire di situazioni estreme non proviene da qualche tratto morale dei funzionari istituzionali. La moralità non è una condizione indipendente, è determinata dai rapporti di potere sul campo di guerra, che stiamo conducendo. Se il concetto del costo politico non esistesse, nessun Stato, neanche quello greco, avrebbe dei problemi a lasciar morire gli scioperanti. Ma il costo politico viene bilanciato anche in rapporto al risultato di una parziale soddisfazione delle richieste degli scioperanti.

Inoltre, anche se di rado, specialmente negli ultimi anni a seguito della grande ondata di arresti degli anarchici, le richieste degli scioperi della fame sono state accettate completamente. Questo dimostra che nel conflitto caratterizzato dallo sciopero della fame, quello che viene richiesto da entrambe le parti è l’equilibrio, solido ma nello stesso tempo fragile. La fragilità di questo equilibrio dipende dal livello di competizione che ogni volta si sviluppa, cioè dall’organizzazione, determinazione e perseveranza che ogni parte dimostra per difendere le proprie posizioni. Si potrebbero dire molte cose sul modo in cui lo Stato (parlando specificamente della Grecia), a prescindere da chi gestisce il potere, affronta gli scioperi della fame, e soprattutto quelli che mostrano caratteristiche politiche, portando al conflitto politico e all’agitazione sociale. Ma ho pensato che una cosa del genere mi avrebbe portato solo ad un vagare fino a stancarmi, dato che in tutti gli scioperi della fame, sia durante il loro processo che anche (e soprattutto) alla conclusione, questo tema è stato discusso a sufficienza. Quello che io considero più importante è invece osservare con la calma i modi in cui noi percepiamo, caratterizziamo e analizziamo gli scioperi della fame. Uno sguardo sui nostri punti deboli, più visibili dopo uno sciopero della fame, a causa della polarità che li ha preceduti.

Come ogni nostra azione anche lo sciopero della fame presenta una duplice natura. Non risponde solo alle domande croniche o emergenti, ma contemporaneamente mette in moto questioni sul chi siamo, in che modo ci organizziamo, come lottiamo, che tipo di relazioni creiamo nei momenti di un periodo di intenso conflitto con lo Stato. Ed ognuna di queste domande, e tutte le altre che emergono, non possiedono solo una risposta, dato che ogni individuo o soggetto collettivo le concepisce in modi diversi. Ogni sciopero della fame inizia con una decisione che possiede una profonda dimensione esistenziale. La continua lotta che si svolge tra il corpo e la mente, tra la volontà di resistere e gli istinti di sopravvivenza, è una condizione molto particolare che logora lo scioperante, non solo fisicamente, ma anche dal punto di vista spirituale/emotivo. Il nostro organismo, come un’insieme indivisibile, viene influenzato in quanto tale dal procedimento dello sciopero. La possibilità di morire è qualcosa che ogni persona dedita alla prospettiva rivoluzionaria ha sempre in mente. Però, lo sciopero della fame possiede la peculiarità che la morte non sembra più essere un momento distaccato, casuale o imprevedibile, ma una fine con un corso predeterminato, con possibilità che in effetti aumentano ogni giorno che passa. Questo mezzo possiede anche un’altra peculiarità. Di per sé non può in nessun modo colpire il regime.

Anche se può suonare eretico, io penso che lo sciopero della fame è un mezzo di lotta introverso, auto-distruttivo e riformista, a prescindere dal livello di combattività e determinazione con cui viene portato avanti, anche se raggiunge la morte dello scioperante/degli scioperanti. La natura riformista dello sciopero della fame innanzitutto proviene dal suo inizio, dato che punta a rafforzare la nostra posizione in una negoziazione, ricattando gli agenti statali. E dal momento che stiamo parlando della negoziazione, ci si aspetta che ci saranno anche degli accordi, compromessi e addirittura riduzioni delle nostre richieste originarie. Dal momento che ci stiamo rivolgendo, anche con ricatto, agli agenti statali, chiedendo di soddisfare delle nostre richieste, noi riconosciamo all’autorità istituzionalizzata il potere di fornire delle soluzioni. Inoltre, ogni sciopero cerca di soddisfare alcune richieste nel dato contesto, senza la capacità di distruggere o almeno superare le a priori esistenti relazioni di potere. In sostanza, esso promuove un equilibrio in cui noi (dipende dallo sviluppo) possiamo ottenere qualche spazio collegato alla ripercussione, ma nello stesso tempo ci rendiamo conto della capacità statale di comprimere e decomprimere una situazione o, in altre parole, del potere di costringere il presente nel nostro vivere individuale o collettivo.

La notevole peculiarità di uno sciopero della fame, quello che trasforma il resto delle sue caratteristiche ed è la sua forza motrice, è però il modo in cui sposta lo scioperante da una posizione debole a quella forte. La determinazione (o la disperazione, dipende dal punto di vista) e l’auto-negazione che si nascondono nella decisione dello sciopero della fame, spingono in un’attività orbitale persone con percezioni molto differenti dallo scioperante, creando un movimento sociale. La simbolica immagine lirica che lo scioperante della fame ottiene come l’essere umano che affronta volontariamente la morte per rispondere “all’ingiustizia” del totalitarismo, è il punto di partenza ipodermico (o anche molte volte visibile) per sostenere uno sciopero della fame. A seconda dei riferimenti e delle percezioni, questo sostegno può attivare, a parte la solidarietà, anche l’umanitarismo, l’equilibrio della giustizia, calcolo politico e simpatia emotiva, come i più comuni di una serie di questi. E qui si presenta la contraddizione che noi come “l’ambiente” anarchico sperimentiamo in relazione allo sciopero della fame. Mentre ogni sostegno che non scaturisce dal valore solidale anarchico ci ripugna, la pressione sociale che essi causano non è solo desiderabile, ma anche necessaria per realizzare gli obiettivi tattici/richieste dello sciopero.

L’esempio più caratteristico sono gli scioperi della fame dei membri delle RAF, che contro un un sistema politico molto duro e consolidato, gradualmente mobilizzarono (soprattutto dopo la morte di H. Meins), a parte le organizzazioni di sinistra di varie tendenze, addirittura alcuni sacerdoti cattolici, aumentando così di molto le loro dinamiche, portando lo Stato tedesco a concedere delle piccole concessioni.

Il supporto che gli scioperi della fame ottengono da varie parti è una processo che non dipende dalla volontà dello scioperante/degli scioperanti, ma dai riflessi sociali che si sviluppano. Però, la questione che sempre emerge è come le proposte dello sciopero della fame si trasformeranno in rottura e confronto, superando gli approcci assimilativi. La cosa che sposta lo sciopero della fame da un percorso auto-destruttivo ad una netta scelta di lotta (e a volte ad un conflitto significativo) è il significato della solidarietà, il requisito di ogni lotta.

Lo sciopero della fame è uno strumento di lotta che dimostra in modo più chiaro di ogni altro la necessità di espansione e di diffusione. La solidarietà collega gli scioperanti ad altre persone che si sentono parte della stessa lotta, che trasmettono le loro voci, che creano un fronte comune, che con le proprie azioni creano crepe nei modi come gli agenti statali gestiscono lo sciopero. La solidarietà libera e diffonde proposte, idee, crea il movimento, la sostanza essenziale della vita. Questo è il punto principale di uno sciopero della fame (e di ogni lotta in generale), e da questo dipende il suo successo. Se non esiste il senso di solidarietà, il sostegno militante allo sciopero della fame come un momento in cui si acutizza il conflitto con il potere statale, anche all’infuori dell’esistente contesto istituzionalizzato, infine la sua conclusione terminerà, per la maggior parte di persone, con l’accettare l’autorità degli agenti istituzionali come salvaguardia dei “diritti umani” o dei “valori democratici”, come nostra “vittoria” nei migliori dei casi, o come “sconfitta” nei peggiori. Perciò, invece di minare la natura e il ruolo dello Stato, lo rafforza. E questa condizione, a parte i risultati diretti, ci rende difficile iniziare un altro sciopero della fame. Senza la solidarietà militante, la percezione che oltrepassa le richieste e a volte addirittura gli scioperanti, trasformando lo sciopero della fame dalla richiesta alla lotta per la vita, senza di questo lo sciopero diventa una scelta auto-destruttiva, un “modo speciale per commettere il suicidio”, secondo le parole della Thatcher sugli scioperanti dell’IRA.

Gli scioperanti della fame anarchici non sono dei martiri o degli eremiti, che vengono torturati oggi per poter domani ottenere un posto in qualche “lista rivoluzionaria dei martiri”. E non sono neanche delle potenziali vittime suicide. La storia rivoluzionaria è piena di esempi degli scioperanti che la morte trasformò in “martiri”. Ogni movimento/organizzazione di liberazione nazionale (ETA, IRA, organizzazioni palestinesi ecc.) o di lotta di classe (RAF, DHKP-C, GRAPO ecc.), violenti (come i sopra menzionati) o pacifisti (il movimento di Ghandi, il Congresso Nazionale Africano ecc.) possiedono tutti la loro propria lista di martiri morti durante i pesanti scioperi della fame. Alquanto ci può toccare emotivamente, l’approccio che cerca la morte ci separa dall’essenza dello sciopero della fame. Dal modo in cui le nostre scelte creano il movimento, cioè la vita, mentre le nostre scelte toccano nello stesso tempo la morte. I modi in cui la realtà viene perturbata da azioni causate dallo sciopero della fame è un processo per vivere la storia nel presente, e non nel passato o nel futuro.

Il nucleo del superamento anarchico dell’immagine archetipica dello scioperante si trova nel superamento del suo atto, della scelta dello sciopero della fame attraverso altri atti aggiuntivi e connessi allo sciopero, ma anche tra di loro. In questo senso, non lo scioperante, ma lo sciopero è presente non solo in carcere o in ospedale, ma soprattutto nelle occupazioni, manifestazioni, scontri, incendi e ovunque dove la solidarietà si diffonde. Se lo sciopero avrà successo e a che livello riuscirà a soddisfare le proprie richieste è un requisito, ma il più grande è il sentiero che apre per la creazione e l’espansione di rapporti attraverso la solidarietà. Naturalmente, ogni lotta si svolge anche in direzione opposta, rompendo i legami e distruggendo le relazioni, quindi all’inizio non esiste la certezza se lo sciopero o ogni altra forma di lotta spingerà le cose in avanti, o le minerà in relazione alla nostra posizione. Solo il tentativo e l’atto nelle condizioni reali possono dare la risposta, e questo è qualcosa che non si nota tanto durante lo sciopero, ma dopo, a seguito della sua conclusione. A distanza, possiamo vedere in modo più chiaro i risultati di uno sciopero della fame. I festeggiamenti o i lamenti per “la vittoria o la sconfitta”, indifferentemente, dopo la fine dello sciopero, rivelano l’assenza di approfondimento con cui noi, come ambiente anarchico, valutiamo le cose, insistendo più sul riflesso spettacolare di cose, e meno sulle base che poniamo per entrare nella prossima battaglia.

L’anarchismo è un tentativo in corso per distruggere lo Stato, il capitalismo e le relazioni autoritarie. Perciò, come anarchici questo è l’unico modo in cui possiamo definire una vittoria. Un percorso a cui non possiamo dare un inizio, un mezzo e una fine. O lasciando parlare Malatesta, “Non si tratta di fare l’anarchia oggi, o domani o tra dieci secoli; ma di camminare verso l’anarchia oggi, domani e sempre”. Dobbiamo capire che i dipoli oscurano e mai svelano. Con la calma e la sicurezza che il tempo trascorso concede, possiamo dare uno sguardo ai più recenti (e tipici) esempi di scioperi della fame che abbiamo vissuto nell’ambiente anarchico. La debolezza delle analisi basata sul dipolo “vittoria/sconfitta” per valutare completamente la situazione, è indicativa.

Kostas Sakkas ha obbligato lo Stato alla ritirata, vincendo la sua uscita dal carcere, spezzando le misure fasciste della detenzione indefinita, che stavano per essere imposte ad alcuni degli accusati. Lo sciopero della fame di Kostas aveva creato un movimento di solidarietà molto forte. Alcuni mesi dopo il suo rilascio, la pressione repressiva era diventata talmente soffocante che Kostas ha dovuto passare in clandestinità, una condizione particolare che lo ha allontanato dal suo ambiente politico/sociale e dall’interazione creata da questa relazione. Un altro esempio è lo sciopero della fame di Spiros Stratoulis che chiedeva la cessazione del procedimento che lo privava del diritto d’uscita durante i suoi 21 anni di carcere. Spiros ha vinto non solo questo, ma anche la caduta delle accuse per reati minori per la maggioranza degli accusati. Ha vinto, quindi, più di quello che in verità stava chiedendo all’inizio, conducendo contemporaneamente una lotta politica per escludere la legge anti-“terrore” dal caso degli “squat di Salonicco”. Lo sciopero della fame di Nikos Romanos è stato quello che ha avuto più impatto negli anni recenti. Nikos ha ottenuto qualcosa che fino a quel momento non era previsto dalla legge, il permesso di uscita per motivi di studio per i detenuti in custodia cautelare. Però, fino al giorno in cui questo testo viene scritto, questi permessi non gli sono stati ancora concessi, a causa dei criteri soggettivi attivati in questa occasione, anche se il “braccialetto elettronico” era stato presentato come una soluzione solomonica. Il recente sciopero della fame della Cospirazione delle Cellule di Fuoco ha in teoria portato al rilascio dei loro famigliari, ma in in verità ci è voluto un secondo sciopero della fame, per stessi motivi, e ai famigliari rilasciati sono state imposte delle severe misure restrittive. Infine, la limitazione della arbitrarietà e della violenta estrazione del DNA vinta sulla carta dopo lo sciopero della fame dei prigionieri politici del DAK (Rete dei prigionieri combattenti) è stata in realtà violata dai procedimenti giudiziari. Tutto il sopra menzionato dimostra il vago confine tra “vittoria” e “sconfitta”.

La massima risolutezza può essere molto utile nei nostri slogan e nelle nostre dichiarazione, ma si è dimostrata totalmente inutile quando si tratta di definire la nostra posizione nel tempo. L’unica condizione significativa che possiamo considerare “vittoriosa” in uno sciopero della fame è la capacità di superare il suo contesto, le sue richieste, le sue obiezioni personali e scrupoli, a infine i suoi soggetti, gli scioperanti, e capitalizzare le dinamiche che sviluppa nella prossima lotta (non necessariamente scioperi). L’esperienza che proviene dalla lotta, le conclusioni dell’auto-critica, l’eredità lasciata dalla lotta, sono la nostra vittoria. Rispettivamente, “la sconfitta” è definita dal livello dell’insuccesso di realizzare il sopra menzionato.

In una realtà complessa, in sviluppo, composta da scoppi e recessi di intensità negli scontri che stiamo conducendo in vari modi contro l’alienazione che la sovranità dello Stato e del capitalo impongono in tutti i campi delle nostre vite (morale, spirituale, biologico, economico, politico), l’utilizzo della terminologia militare nelle “vittorie” e “sconfitte” non solo che ci disorienta, ma cela l’essenza della nostra lotta. Cioè, che non si tratta di una catena con anelli tutti in linea o di un muro dove tutti i mattoni sono posti in modo uniforme, ma di un mosaico dove ogni tassello interagisce con tutti gli altri per produrre un risultato talmente complesso come lo è la realtà che ci circonda. Ogni tassello in questo mosaico, ogni luogo e momento nel continuum spazio-temporale, ogni lotta individuale che conduciamo cela qualcosa di “giusto” e “sbagliato” del passato, dei punti forti e deboli delle lotte passate, mentre contemporaneamente impregna il presente e il futuro con le proprie caratteristiche individuali, e nasconde nelle relazioni che crea il seme del superamento, non solo del passato, ma di sé stessa. Solo attraverso questo prisma possiamo collegare le nostre lotte, giustificando l’eterno valore di Eraclito, che disse “tutto è uno”. E attraverso questo prisma possiamo capire che guardare ai diversi punti di vista e percezioni come a dei motivi per sterili disaccordi con lo sciopero della fame (o qualunque altra cosa), ci indebolisce totalmente.

Riconoscendo che nonostante il possibile disaccordo sul tempismo, il modo, l’organizzazione e su altri elementi che completano un’azione, stiamo lottando contro le condizioni ostili che ci circondano, ad un certo punto questo ci può liberare politicamente e rafforzarci collettivamente, per essere più incisivi, significativi e pericolosi nella lotta che conduciamo.

Questo sono le nostre vittorie, e la oro assenza è la nostra sconfitta.

Dicembre 2015

Georgios Karagiannidis – Dikastiki Filaki Koridallou – D’Pteryga – T.K. 1811O – KORYDALLOS – ATHENS – GREECE


(tratto da Tear Down The Bastille – Voices from Inside The Walls, Greece, #6, April 2016 )


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