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Quando tradussi e pubblicai l’opuscolo “Individualità e il gruppo anarchico”, firmato da una delle cellule della CCF, Cellula di Guerriglia Urbana, aggiunsi in nota che non l’ho fatto perché ne condivido il contenuto, ma per rendere pubblico quanto questo progetto, secondo me, si è allontanato da quella sua forma originaria di tensione per proporre (o riproporre) un individualismo anarchico che per certi versi può essere trovato nelle pagine di una diversa teoria insurrezionalista, però, in questo caso, avvicinandosi, o addirittura in certi punti sfociando in idee formali, cioè dell’organizzazione formale.

Simili proposte (piattaforma informale, organizzazione strutturata e specifica) sono già state oggetto di critica, sia nello scritto del compagno Alfredo Cospito indirizzato ai compagni greci, che nel testo di alcuni compagni che costituivano le CARI-PGG, e recentemente nell’ultima riflessione, riguardo il testo in questione, del compagno di RadioAzione.

Questo che segue è solo una raccolta di pensieri sparsi che affioravano alla mia mente mentre traducevo il testo, di tasselli che non compongono un mosaico figurativo, ma un’ astratta immagine personale libera a interpretazioni, perché non possiedo verità da trasmettere, e tanto meno da mercificare.

Questo opuscolo tocca vari argomenti, e molti di essi, secondo il mio punto di vista, vanno a sgretolare il concetto dell’individualismo in sé (sia a livello teorico che pratico). E proprio coloro (almeno gli autori del testo) che abbracciarono l’idea della F.A.I., propagando la versione nichilista dell’anarchia, adesso propongono di snaturalizzare la prima, cercando di indirizzarla nelle forme (strutture) che sono più proprie ad un, oserei dire, “insurrezionalismo comunista” che anarchico, più affine forse ai gruppi come 17N, cercando di strutturare l’anarchia informale in piattaforme, organizzazioni fisse, cluster, gruppi, sotto-gruppi, gruppi di prova ecc. Il testo sta tentando di lanciare una proposta completamente antitetica alla F.A.I., però conservando lo stesso aggettivo “informale”. Non perché qualcuno detiene su di essa i “diritti d’autore”, ma perché va ad eclissare tutto quello che c’è di informale e di individualista in questo progetto. Partendo dalla mia esperienza personale, se ritengo che un progetto non soddisfa i miei bisogno sono libera di crearmi un altro, senza cercare di convincere gli altri di adattarsi ai miei bisogni. Questo, per me, significherebbe far politica.

Non è che con queste mie parole voglio, per l’amor dell’anarchia, imporre a qualcuno le mie idee, solamente penso che chi progetta organizzazioni così strutturate e fisse, forse farebbe meglio a darsi anche un nome più appropriato. “Informale”, nel documento della F.A.I. in lingua italiana (“Chi siamo – Lettera al movimento anarchico e antiautoritario”): “Inoltre chi fa parte della F.A.I. ne è militante a tutti gli effetti solo nel momento specifico dell’azione e della sua preparazione, non investe l’intera vita e progettualità dei compagni (...)”. Poi se in qualche altra lingua questo concetto possiede significati diversi forse ci sono stati dei fraintesi.

L’individualismo nel suddetto opuscolo viene intaccato in vari punti, giusto per citare qualche esempio, criticando addirittura le rapine fatte da anarchici per scopo puramente individuale, e non per la grande Causa. Che egoisti questi anarchici che appagano il proprio ego realizzando i propri desideri, che contemporaneamente soddisfano i bisogni materiali che il sistema ci impone e imprimono un attacco all’istituzione bancaria, cioè al capitale.

Perché certi anarchici si dedicano solo alle rapine e non anche all’azione diretta, si chiedono gli autori. Ma, mi chiedo io, la rapina (anarchica) a mano armata non è anch’essa una forma di azione diretta? Scadiamo adesso a discutere su tematiche futili se è più radicale inviare un pacco-bomba o fare una rapina? E poi, continuano dicendo, che i compagni preferiscono dedicarsi alle rapine perché la polizia è meno interessata ad indagare queste, che altri tipi di azioni dirette. No so, forse nel territorio degli autori funziona così (o forse perché questo commento è indirizzato a qualcuno in particolare, però non capisco allora perché parlare in generale)... A me, personalmente sembra che gli autori forse non si rendono bene conto di cosa si rischia entrando in banca con un’arma (e non parlo solo dal punto di vista legale)... E questo lo dico non perché io possiedo una scaletta di forme dell’azione diretta, ma coloro che il testo l’hanno redatto (almeno questo è l’impressione che lascia).

Dicono, “non ci soddisfa un’“etichetta” generale, noi non siamo “Alcuni anarchici”, o qualunque altra firma con cui alcune persone scelgono di firmare le loro azioni”. Dopo i bacchettoni dell’anonimato appaiono adesso i fondamentalisti di una firma fissa, di una aderenza specifica nel tempo. Alla faccia dell’individualismo stirneriano e del suo “nulla”.

Non penso che se qualcuno sceglie di compiere un’azione anonima, o senza un nome specifico, o addirittura ripetitivo, lo fa per qualche sentimento di paura. Con o senza firma, ogni anarchico che si appresta a compiere un’azione si arma dio coraggio uguale. E se sceglie di farlo nell’anonimato o firmando è in base alle (spero) proprie idee, convinzioni, e anche circostanze. Non penso che su questo (come anche sul null’altro) ci dovrebbero essere delle regole universali. Ed esprimere una simile opinione mi pare scorretto verso tutti quegli anarchici che si espongono, o si sono esposti ai rischi di un’azione, anonima o meno, perché se fossero stati perseguitati dai dubbi o/e dalle paure non l’avrebbero sicuramente compiuta. Chi invece ha bisogno dello spettacolo, di crearsi un ruolo, un nome duraturo nella Storia, un’immagine, un’identificazione, chi è così tanto “spavaldo” e “coraggioso”, tanto vale che sul luogo lasci nome-cognome-indirizzo, si faccia un selfie e lo posti su qualche sito di contro-informazione, dove potrà trovare video/foto degli, ad esempio, scontri, fatti dagli stessi partecipanti. W il porn-riot!

Per me tutte le idee sono solo degli strumenti, come lo sono anche i valori, quindi anche le parole che utilizziamo, mere parvenze create dalla mente umana. E in questo contesto l’anarchia è solo un’etichetta, come ogni altra. Però, dato che utilizziamo questi strumenti, le parole, per comunicare, ho scelto l’anarchia per descrivere le mie idee, non il mio ruolo. Potrebbe essere ogni altra parola, ma in questo linguaggio predeterminato la parola “anarchia” è una parola predeterminata per esprimere idee e azioni specifiche. Questo ovviamente non significa che considero ogni anarchico mio compagno, o che mi identifico con ogni azione anarchica. La mia idea dell’anarchia è solo mia, però può essere in affinità con altri.

Non ho scelto l’anarchia perché intorno a me c’erano altri anarchici (anzi, non c’erano proprio), né perché ho letto dei libri e mi sono identificata con essi. Nelle idee anarchiche e nichiliste ho semplicemente trovato delle affinità. E adesso, dopo tanti anni, l’anarchia, anche se è solo una parola, per me non è un mera “etichetta”, ma il risultato delle mie idee, posizioni, esperienze, pensieri verso la società, il sistema, il mondo intero. Potrei chiamarla “xyz”, ma penso che non cambierebbe molto. Non seguo i “compagni” e i testi “sacri” dell’anarchismo, non credo nelle rivoluzioni e nella “grande causa”, e non voglio salvare nessuno e niente (né gli uomini né gli animali né la natura). Si tratta di un tentativo di liberazione personale. Penso che questo intero pianeta, in verità, è insignificante, futile, come la vita umana. Nella mia concezione del mio mondo il concetto dell’“insignificante” e del “significativo” si intrecciano. Da una parte guardo alla vita e a tutto quello che mi circonda come qualcosa di molto insignificante in confronto a quello che chiamiamo Universo, qualunque cosa sia, il nulla o la vita. Ma, dall’altra parte, la mia vita è nello stesso tempo la cosa più significativa che possiedo, nella sua insignificanza, ed è lei la mia causa (“io stesso sono la mia causa”). Una contraddizione?

Perché se non utilizzo la mia mente, i miei occhi, la mia esperienza per dare un significato alla mia vita, e al suo contesto, affogherei nel determinismo, nei valori astratti di un’ideologia, costruita con gli occhi degli altri. Non sento il bisogno di convincere qualcuno in qualcosa, ma contemporaneamente non voglio neanche essere convinta. Mi piace solo dire quello che penso. Non mi interessano i curriculum vitae rivoluzionari o essere/rimanere un nome importante negli ambienti anarchici, si tratta solo di un ennesimo tipo di ruoli. Non mi sento più debole perché non faccio parte di un gruppo, perché sono sola. Certe volte sento la solitudine, ovvio (ma chi, se è sincero con sé stesso, non la sente?), ma il gruppo certamente né la eliminerebbe né mi darebbe la forza necessaria per affrontare la vita. Perché, se nel gruppo (come di solito succede) devo mettere a silenzio una parte di me, se dove concordare con cose che non mi riflettono, mi sentirei ancora più sola, più debole, perché perderei me stessa.

Penso che l’anarchia sia (o almeno sarebbe bello che fosse) qualcosa di unico, individuale, altrimenti esiste il pericolo che si trasformi in un’ideologia da seguire, costruita da altri, come tante. L’anarchia, come le altre parole in un mondo pieno di parole, può essere tutto, e può essere niente. Si tratta di individui.

Asserire che una cellula composta da due-tre individui (non membri, perché nella mia concezione “membro” è colui che appartiene a qualcosa) o di uno solo vale meno di quella composta da, esempio, dieci persone, secondo me lo può affermare solo chi è abituato a pensare in forma di gruppo, cioè di cellula come struttura fissa nel tempo che si muove in blocco, identificandosi con essa, e non la concepisce come un incontro di affinità che tende, in quel momento, verso la stessa meta, e una volta raggiunta si discioglie per intrecciarsi con un’altra, o forse la stessa affinità, senza preconcetti deterministici. Dato che ognuno ha mantenuto la propria identità di persona, e non di concetto.

Qui non sto parlando di scadenze fisse (forse chi parla in questi termini non riesce ad uscire dalle cornici del “fisso”), ma neanche di durate a tempo indeterminato. Sto parlando di sperimentazioni individuali, di condizioni e circostanze sempre diverse alle quali approcciarsi in modo informale anche per cogliere meglio le loro sfumature. Non si tratta di rapporti creati ad occasione, a tavolino per la realizzazione di un progetto (di qualsiasi tipo). Chi concepisce i rapporti in modo diverso da questo, secondo me, si esprime da un punto di vista dell’organizzazione politica, e non da liberi e spontanei incontri tra compagni affini. Penso che come anarchici non siamo in cerca di proseliti e reclute, che dovrebbero sottoporsi ad un’ordalia prima di diventare membri di una società segreta (molto ottocentesco, devo dire), ma che stiamo costruendo delle relazioni libere in un mondo di spazio normato, e spontanee perché scaturite da menti libere e affini, che poi sfociano nei progetti altrettanto liberi (non idolatrati).

Qualche esempio concreto, non mi pare che al povero Lucheni gli sia servita il tipo di struttura proposta per accoltellare la monarca, o per non andare tanto lontano, al “Nucleo Olga” per gambizzare Adinolfi.

Ma dato che il concetto del “prigioniero politico” è ormai diventato usuale negli ambienti anarchici (nonostante i tentativi di aprire un dibattito su questo argomento), nulla di strano che da questo amalgama emergono delle politiche, o viceversa. In che modo, mi chiedo io, può un anarchico sentirsi a proprio agio in un concetto (politico) che condivide con i comunisti? Forse perché anche il primo si occupa più di politica, che della distruzione di concetti morali/politici che ci vengono inculcati. Comprendo benissimo quanto sia difficile a individuarli e a liberarsene, ma se ce li portiamo dietro, come un’eredità, cosa ci spinge ad agire contro questo sistema che li ri-produce? Se qualcuno vuole rispondere “per il solo piacere dell’attacco”, posso solo ripetere che non mi interessa l’azione in sé, ma la sua forza motrice, che crea l’azione, il famoso binomio “teoria&azione”. Non penso che gli anarchici hanno l’esclusiva nell’uso di questo piacere. Infatti, perché il concetto di “prigioniero politico” ha il privilegio di riferirsi solo agli anarchici e comunisti? Perché non lo estendiamo anche agli islamisti, fasci, nazi ecc.? Anche loro sono perseguitati e detenuti per le loro idee. Per quale motivo dovrei sostenere uno slogan “libertà per tutti i prigionieri politici” e non per tutti i detenuti in generale? Forse perché qualche anarchico sente delle affinità anche con i comunisti? Chi è interessato alla politica, di sicuro. Come dice il detto “Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei”.

E in base alla mia esperienza, e a quella storico-politica, non eiste un divario tra il fascismo e il comunismo. Almeno da un punto di vista anarco-nichilista.

Qualcuno dirà che sto cercando di paragonare gli anarchici ai fasci (non sarebbe la prima volta). Cosa posso aspettarmi adesso, che la folla dei fedeli a qualche gruppo o ideologia mi lapidi sulla pubblica piazza (o meglio dire sito web), che venga “crocifissa” sulla “A” cerchiata perché ho profanato il Sacro? Che venga scomunicata dal “Movimento”? Tanto a me di queste cose non me ne può fregare di meno perché non faccio parte di nessun gruppo, di nessun movimento.

Quello che voglio dire (chi riesce o vuole capirlo) è che non valuto una persona in base ai ruoli che la società/il sistema le ha etichettato (come un codice a barre) per riprodurre le dinamiche a lei utili per riprodursi, es. islamista, terrorista, immigrato (tanto a cuore ai servizi sociali anarchici, basta che arrivino dall’Africa o dall’Asia, come se sul continente europeo non ci fossero frontiere, come anche all’interno della stessa EU, ma di queste certi se ne accorgono solo quando c’è da calarsi nel ruolo dell’occidentale civilizzato che aiuta il “buon selvaggio”, preferibilmente scuretto), o che da sola in essi si è calata, classificandosi, non riuscendo a scrollarsi da dosso le costruzioni ideologiche/morali che nutrono la macchina sociale/statale/economica. E a questo non sfuggono neanche gli anarchici, con i loro doveri verso l’anarchia. Se dobbiamo iniziare la liberazione distruggendo i propri idoli (come spesso si ripete), allora, in questo dovrebbe essere inclusa, scusate, anche l’anarchia, e di conseguenza gli anarchici stessi e le azioni, adorati in alcuni casi come idoli, che ci portano solo a ricreare gli stessi schemi che diciamo di combattere, e poi li riproduciamo (chi per difficoltà di comprendere, chi per fare parte del branco) nel nostro ambiente, non rendendoci neanche conto quanto ne siamo impregnati. Liberarsene per creare una propria, individuale anarchia, non quella degli anarchici “migliori”, “esperti” e simile, ripetendo gesti ed esperienze altrui, rimanendo alienati da sé stessi, in un mondo già alienato.

Valuto una persona non dall’aggettivo, ma dai suoi sforzi di “liberare” la mente, di svuotarla dai significati che i vari settori della società/sistema ci infondono in modo che possiamo materializzarli, contribuendo alla loro conservazione. E’ inutile ripetere lo slogan “distruggiamo il carcere dentro di noi” se pensiamo che basti un odio verso le istituzioni tangibili del sistema e poi ci esprimiamo (quindi anche pensiamo) nello stesso, o simile, linguaggio istituzionalizzato, che ci porta a incarnarlo nei nostri rapporti.

Ho sempre pensato che con l’anarchia si esprime il sommo punto di liberazione individuale (non solo dall’esterno), mentale, che in quanto tale, a mente liberata, può distruggere sia i significati imposti, che le emanazioni di questi significati, creando, cercando di partire dal nulla (o da quello che più si avvicina a seconda delle nostre capacità), valori ed esperienze proprie.

C’è chi, invece, preferisce muoversi sui sentieri battuti dagli altri senza rischiare di inciampare nel caos o cadere nell’abisso del nulla, aggrappandosi alla sicurezza morale anarchica pur di dare un ruolo alla propria vita, come la religione sacra o laica insegna.

“La politica e l’ideologia mostrano il loro vero volto solamente quando le osservi dall’esterno. Quando non ti preoccupi dei “compagni”. Gli anarchici nichilisti utilizzano l’anarchia, e non viceversa. Quello che la politica crea è il veicolo per una ben nascosta propaganda ideologica e per la perpetuazione di un dogmatico programma altrui. Dopo la morte di Dio, il coinvolgimento politico, i movimenti e i programmi ideologici sono diventati la nuova religione, per non scartare l’obiettività, per mantenere la fede in nuovo Mondo Autentico, per sentire il sé significativo davanti agli occhi dell’Esistenza (...)”, “Prologue”, Paroxysm of Chaos #2

anarhija.info (ottobre 2016)